Dalla lotta alla mafia alla liberazione di Giuliana Sgrena: vent’anni senza Calipari

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Vent’anni dopo la sua morte in Iraq durante la liberazione della giornalista del Manifesto, la storia di Nicola Calipari racconta di un servitore lontano dalle trame torbide dei nostri 007

Tipico o atipico? Eroe o semplicemente un onesto servitore delle istituzioni democratiche? Che poliziotto era Nicola Calipari? La risposta non può che dipendere dalle lenti con cui si osserva il Paese, funestato da guerre nei servizi segreti e da complicità dei poteri criminali fin dentro il cuore dello Stato. Questa storia di ambiguità che ha da sempre contraddistinto i nostri apparati obbliga a cucire un’etichetta ulteriore a chi ha svolto con professionalità e onore il mestiere di agente segreto.

In questo senso è di grande aiuto la riflessione di Rosa Maria Villecco, la moglie di Calipari. Nello studio di Fabio Fazio in occasione della presentazione del film sul marito dal titolo “Il Nibbio”: «Era un poliziotto atipico. Io vorrei tanto che con questo film fosse tipico: esattamente questo tipo di modello di persona, che coniuga sicurezza e tutela dei diritti umani». Riporta cioè a una dimensione di normalità l’esercizio della professione secondo regole democratiche.

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Se riuscissimo a compiere tale sforzo non avremmo più bisogno di eroi, paladini o 007 atipici per definire chi ha agito sempre per il bene della Repubblica. Il fronte lessicale verrebbe ribaltato: gli atipici sono gli altri, quelli che tramano, complottano, spiano illegalmente e rapiscono per conto di agenzie straniere. Facile a dirsi in questi mesi di lotte intestine all’interno dell’intelligence, stretta tra cordate politiche e inchieste giudiziarie su dossieratori di professione che vantano rapporti privilegiati con pezzi dei nostri servizi segreti.

Bande dai nomi esotici, come la squadra Fiore, o riunite in azienda tipo Equalize, si sommano ad indagini riservate su figure apicali dentro palazzo Chigi, vedi il caso del capo di gabinetto della presidente del Consiglio Giorgia Meloni spiato dall’Aisi, l’agenzia che si occupa della sicurezza interna ai confini.

Oltre i servizi

La vita di Calipari termina a Baghdad sulla Route Irish il 4 marzo 2005, colpito da proiettili americani nel tentativo di salvare la vita alla giornalista de Il Manifesto Giuliana Sgrena, appena liberata dai suoi rapitori in Iraq.

Lui le ha fatto da scudo di fronte al fuoco amico, inaspettato. Calipari era il capo dell’ufficio che si occupava di questo tipo di operazioni speciali, il suo vice ha raccontato sul Manifesto di aver tentato di dissuaderlo nell’andare sul luogo: «La pressione da Roma era tale che Nicola decise di affiancarlo. La situazione era molto pericolosa, ma lui fu irremovibile, non se la sentiva di esporre nessuno di noi», ha raccontato il vice di Calipari, Carlo Parolisi, in un dialogo con Sgrena.

Calipari era così, calabrese, per giunta reggino, dunque molto testardo. Figlio di una terra martoriata, anche a causa di torbide trame tra pezzi di stato deviato e crimine organizzato, sentiva ancor di più il peso del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, come se fosse obbligato a caricarsi il macigno di un’intera comunità per riscattarla. E in Calabria si distingue fin dagli albori: a Cosenza in polizia è tra i pochi a capire che la guerra tra clan è sintomo di una ‘ndrangheta potente, c’era chi negava che quella provincia potesse essere contaminata come Reggio Calabria.

Intuito che gli varranno delle minacce. Per questo volerà in Australia alla fine degli anni ‘80: lì collabora con i detective australiani e produrrà una relazione monumentale sul radicamento della ‘ndrangheta, fu il primo a individuare codici di affiliazione e i gruppi organizzati di origine calabrese.

Se conosciamo le origini della mafia calabrese tra Melbourne e Sydney lo dobbiamo all’agente atipico Calipari.

Il Sismi degli scandali

Calipari entra nel Sismi nel 2002. Prima in distacco dal suo corpo, poi in organico un mese prima di morire in Iraq. L’Agenzia in cui arriva è quella del governo di Silvio Berlusconi guidata da Nicolò Pollari, che lo ha voluto come capo divisione. Un anno dopo il suo arrivo l’ufficio di Pollari sarà travolto dall’operazione del rapimento dell’imam Abu Omar, vicenda coperta dal segreto di stato con processi senza una verità giudiziaria. Una storia che ha visto implicato oltreché Pollari anche l’agente segreto Marco Mancini, riapparso in pubblico con una foto che lo immortalava assieme a Matteo Renzi in un autogrill intenti a parlare di non si sa cosa.

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Le foto simboliche sono una costante nella vita di Mancini: è lo 007 che farà scendere Sgrena dal volo giunto in Italia. Vent’anni dopo la giornalista ha chiesto al vice di Calipari perché proprio Mancini che non aveva partecipato all’operazione. La risposta: «Per una sua iniziativa. L’ordine per tutti noi era di non scendere e affidarti al personale medico».

Il caso dell’imam, tuttavia, era soltanto l’inizio di una fase costellata di intrighi e sospetti attorno al Sismi di Pollari. L’anno dopo l’uccisione di Calipari in Iraq, è emerso lo scandalo dossieraggio di Pio Pompa, collaboratore dell’Agenzia, legatissimo a Pollari: era in possesso di faldoni contro i “nemici” del governo Berlusconi, giudici e giornalisti.

In un libro firmato da Gabriele Polo, direttore de Il Manifesto ai tempi del sequestro Sgrena, affiorano brandelli dell’inquinamento diffuso all’interno del Sismi: Calipari, si legge nel libro, aveva il sospetto di essere controllato dai suoi, a tal punto da custodire documenti in cassaforte.

In questo contesto, dunque, Calipari, era un agente atipico perché era fedele alle regole democratiche. E lascia un’eredità pesante ancora oggi, in questi tempi di nuovi corvi, spioni, dossier e agenti troppo tipici.

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