Se fossimo a Seattle, questa storia inizierebbe con una start-up aperta nel garage di casa. Invece siamo nel Basso Salento e inizia con l’acquisto di 3,5 ettari di terreno agricolo (oggi diventati più di 70) nell’agro di Ugento, su un’altura da cui si può vedere il mare. La start-up, fatta di terra rossa e muretti a secco, parte con la produzione di essiccati e le distese di pomodori messi ad asciugare al sole. L’altra peculiarità di questa storia è il percorso inverso: prima quello di due genitori che si emancipano dal legame con la terra trovando un lavoro nella moda (o nel Tac, come si usa dire da queste parti) e poi di figli che invece decidono di tornare al lavoro del nonno, quello del contadino. Ma di approcciarlo con l’entusiasmo, le competenze e la tecnologia degli anni Duemila che si stanno affacciando. Questa è la storia dell’azienda agricola I Contadini, dei fratelli Edoardo, Emanuele e Gianna Trentin.
La filiera corta e la stagionalità
Dall’alba al tramonto, nell’azienda si lavora a pieno ritmo: a seconda delle stagioni, sotto le mani degli operai passano carciofi (rigorosamente il viola brindisino), finocchi, olive, lampascioni, melanzane e peperoni. «La nostra – è la prima cosa che dice Edoardo – è un’azienda a filiera corta». Il che significa che tutto il processo produttivo, dalla coltivazione fino all’apposizione dell’etichetta sul barattolo, inizia e si conclude lì, in quei capannoni che, se fossimo adolescenti, sarebbero un po’ come la fabbrica di Willy Wonka. Questo è il periodo delle cicorie e sono loro – che a breve diventeranno le “puntarelle alla crudaiola delicatamente agrodolci” – le protagoniste di questo racconto.
Parlare di chilometro zero, in questo caso, è persino un’esagerazione: i grandi campi di cicorie sono appena al di là della strada ed altre ne spuntano nelle aiuole proprio di fronte all’ingresso dell’azienda. «Utilizziamo – aggiunge Edoardo – una varietà autoctona locale, la cicoria di Galatina perché è molto resistente e ci consente di non usare trattamenti chimici». Il viaggio della cicoria inizia dunque qui: dai campi al capannone fino ai banchi della prima lavorazione dove le vengono tolte le foglie e viene “decapitata”. Si conserva solo il cuore, che qui si chiama con l’intraducibile termine “scattune”. «Su cento chili di cicorie fresche – spiega l’imprenditore – ricaviamo circa 15 chili di prodotto netto. La parte inutilizzata la diamo alle fattorie perché serva a nutrire gli animali». La resa è molto bassa, come accade anche per le rape, ed è per questo che il costo allo scaffale non può essere quello di un prodotto da supermercato.
Il processo produttivo: dai campi al vasetto
A questo punto le puntarelle sono pronte per fare il bagno nell’aceto: «Compriamo quello di mele da un’azienda familiare di Modena». Sale integrale e succo di limone servono a portare il ph del prodotto fino all’acidità desiderata. A questo punto, si procede prima con la scottatura e poi con l’invasettatura, che qui vengono fatte ancora in maniera manuale: «Utilizziamo due vecchie bacinelle – dice Edoardo – perché ci permettono di controllare meglio la consistenza del prodotto». Che, manco a dirlo, è in perfetto equilibrio tra il tenero e il croccante. «Il controllo visivo serve invece a togliere eventuali scarti sfuggiti nelle fasi precedenti».
Dalla raccolta manuale dei prodotti dei campi fino alla sgocciolatura, qui ogni fase della produzione – sebbene si parli ormai di quantitativi importanti – è portata avanti in maniera artigianale.
Servono tante mani e tante ore di lavoro per arrivare a quel vasetto che sa di cura, genuinità e amore per il territorio. Tra macchinari avveniristici che chiudono ermeticamente i “boccacci” e altri che incollano sul vetro l’etichetta, sembra quasi anacronistico che qui, ancora, a comandare è la campagna. È la stagionalità che detta i ritmi: «Per quanto si cerchi di programmare la produzione in funzione degli ordini e delle vendite – conclude Edoardo – non siamo noi a decidere i tempi e le quantità: se la terra produce tanti carciofi, vanno comunque lavorati e poi stoccati».
Ed ecco perché l’ultima tappa del lungo viaggio è proprio l’enorme magazzino – serve spazio per obbedire alle leggi della natura – da cui partono i vasetti al sapor di Salento che raggiungono le case di tutto il mondo.
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