Arno: i lavori partono e non arrivano. La storia di Restone: cassa d’espansione “nata” tante volte e mai cresciuta

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Il presidente Eugenio Giani e l’assessora Monia Monni alla cassa d’espansione di Restone, nel Valdarno (Foto Toscana Notizie)

“La posa della prima pietra”, ha detto il presidente della Regione, Eugenio Giani, oggi 5 marzo 2025, a proposito dell’avvio dei lavori della cassa di espansione Restone, “è un altro tassello importante del sistema di laminazione di Figline a difesa dell’Arno. Un’opera fondamentale per la mitigazione del rischio idraulico di Firenze capace di contenere fino a 5,5 milioni di metri cubi di acqua”.

Il problema? Che la frase di Giani, a proposito delle casse d’espansione nel Valdarno, sia stata pronunciata, negli ultimi vent’anni, molte volte. Anche da Matteo Renzi quand’era presidente del Consiglio. Prime pietre, murate o soltanto evocate. E cantieri mai andati avanti. I lavori, più che progredire, sembrano ogni volta arretrare. Per motivi che Giani (presidente dal 2020) potrebbe forse farsi svelare dagli uffici.

Certo non per mancanza di soldi. E’ vero che i costi sono lievitati: nel 2005, quando l’allora ministro Altero Matteoli stanziò 200 milioni per l’Arno, le casse d’espansione valdarnesi prevedevano un’ipotesi di spesa di 50 milioni. Oggi per Prulli e Leccio servono circa 150 milioni. Ma Prulli è ancora in gara d’appalto e Leccio in progettazione. Pizziconi costerà 36 milioni. E l’entrata in funzione non pare vicina. Per Restone, con la “prima pietra” di oggi, serviranno 40 milioni. In tutto 226 milioni. Che risultano esserci, visto che per la difesa del suolo, e quindi per il fiume, sono stati stanziati 650 milioni nell’arco di una quindicina d’anni. Di cui più di 500 dallo Stato e gli altri 150 dalla Regione stessa.

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Lasciatemi aggiungere che le 4 “casse”, più l’innalzamento della diga di Levane, opera progettata ma non vicina alla realizzazione, potranno fermare 35 milioni di metri cubi d’acqua. Un aiuto, ma non la soluzione del problema: se si considera che il 4 novembre 1966 l’Arno rovesciò su Firenze e due terzi della Toscana una valanga calcolata in 150-200 milioni di metri cubi d’acqua, alla catastrofica velocità di 4100 metri cubi al secondo.

E’ dal 1177 che l’Arno compie “scorrerie”, nei secoli sempre più devastanti. E’ vero che i tempi di ritorno fra un’alluvione e l’altra vengono mediamente calcolati in 120 anni, ma si sono avuti eventi anche ravvicinati. E ora le certezze sono minate da cambiamenti climatici e bombe d’acqua. Fra un anno celebreremo il sesto decennio dall’ultima “gran piova”. E il rischio di una nuova catastrofe non è affatto scongiurato.

Confesso che l’idea di una nuova alluvione mi sconvolge: come fiorentino, oltre che come giornalista. Nel ’66 avevo 16 anni: non ho mai potuto dimenticare quel che vidi. A “La Nazione” mi chiamavano “l’arnologo” per l’impegno nel raccontare il fiume coi suoi mille problemi. E’ vero che in quella bella redazione della cronaca di Firenze c’erano anche il “mostrologo” e perfino il “tuttologo”, ma l’etichetta mi è rimasta addosso. E non me la voglio staccare.

Mi preoccupo, quasi m’indigno, di fronte ai fescennini, ossia ai teatrini: non solo della politica ma anche dei burocrati che fanno e disfano. In Regione c’è sicuramente fantasia, ma poca concretezza. Non mi riferisco al Presidente, indaffaratissimo e pronto a combattere su tutti i fronti, ma ai tecnici che, quindici anni fa, pensarono, per esempio, agli “argini gonfiabili” per fermare le grandi piene. Avendo visto l’onda alta sei metri del ’66, scrissi che l’Arno li avrebbe strappati e trascinati via come gommoncini.

Ora dagli stessi uffici regionali arrivano progetti di “muraglioni”, non previsti da nessun piano di bacino, che cambierebbero il paesaggio che apparve al Manzoni quando venne a “sciacquare i panni in Arno”. Muraglioni che rischiano di provocare danni e aumentare il pericolo. Sicuramente a chi abita in riva sinistra, Bogo San Jacopo e San Frediano. E di far diventare ancora più devastante l’onda di piena che potrebbe abbattersi su Isolotto, Osmannoro, frazioni e comuni a valle di Firenze.

L’Arno si “argina e si tiene” a monte, non dentro Firenze. Opere che nessuno degli estensori dei piani di bacino (dal De Marchi Supino degli anni Sessanta al Nardi del 1999) si è sognato di prevedere hanno la capacità di aumentare confusione, incertezza, paura. Allora smettiamola di murare le “prime pietre”, seguiamo i lavori. E diamo le notizie quando saremo in grado di limitare gli sconsiderati “capricci” dell’Arno.

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