Stato di incapacità naturale e CTU percipiente

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Viene chiesto l’annullamento della scrittura privata di accollo e ricognizione dei debiti per stato di incapacità naturale ai sensi dell’art. 428 cpc.

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Gli avv.ti M.P. e Pa.P. e il dottor Me.P.F., creditori nei confronti del signor M. di società dell’omonimo gruppo per prestazioni professionali svolte, agivano in giudizio innanzi al Tribunale di Verona nei confronti del legale rappresentante di una Srl unipersonale, in virtù di apposite scritture private d’accollo e di ricognizione dei debiti che questi aveva sottoscritto. Oggetto della domanda era la condanna al pagamento di complessivi 422.137,81 euro.

La richiesta di annullamento per incapacità naturale

Il convenuto, resistendo in giudizio, chiedeva l’annullamento per incapacità naturale, ai sensi dell’art. 428 c.c. e formulava la relativa domanda anche nei confronti delle altre parti, che chiamava in causa.

Il Tribunale, ritenuto non provato lo stato d’incapacità naturale del convenuto, accoglieva la domanda principale, rigettando le domande della parte convenuta.

Successivamente, anche la Corte di Venezia, con sentenza resa nei confronti della moglie (amministratrice di sostegno ed erede di V.R.), respingeva il gravame escludendo (previa CTU medico-legale) la menomazione dello stato di capacità di VR al momento della sottoscrizione degli atti di accollo sopra indicati.
Riteneva, inoltre, inammissibile l’appello nella parte in cui questo non aveva preso una precisa posizione sulle considerazioni svolte dal Tribunale nel rigettare la domanda subordinata di annullamento dei contratti anzi detti per dolo.

La parola alla Corte di Cassazione

Secondo i ricorrenti, la Corte veneta avrebbe errato nel ricostruire il concetto di incapacità naturale, essendosi basata esclusivamente sugli esiti della CTU, senza considerare le relazioni dei CTP e la copiosa documentazione medica prodotta. Inoltre avrebbero mancato di considerare altri indici rilevatori, quali il disturbo comportamentale da cui V.R. era affetto e il contenuto altamente pregiudizievole dei contratti impugnati. Questi elementi, correttamente valutati, avrebbero concorso a dimostrare l’esistenza di entrambe le condizioni per l’applicazione dell’art. 428 c.c. e alla conseguente annullabilità dei contratti di cui è causa.

Le censure vengono respinte in toto perché infondate (Corte di Cassazione, II civile, ordinanza 6 febbraio 2025, n. 2961).

anzitutto non viene considerato il costante indirizzo secondo cui nel ricorso per cassazione, il vizio di violazione e falsa applicazione di legge dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (così e da ultimo, n. 20870/24; tra le prime massimate, v. la n. 2707/04).

Come la Corte di Appello ha esaminato lo stato di incapacità naturale

Ciò preliminarmente evidenziato, sullo stato di incapacità naturale la Cassazione osserva innanzitutto che la questione è stata esaminata attentamente dalla Corte veneta, difatti è stato considerato:

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  • a) che nella ridetta nozione di fatto storico, principale o secondario, non è inquadrabile la CTU, che viene rammentato, è atto processuale che svolge funzione di ausilio nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente). Quest’ultima costituisce un elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal Consulente.
  • b) sostituito al “punto” il “fatto” decisivo, l’omesso esame lamentato non si identifica con l’argomentazione della parte la quale, svolgendo le proprie tesi difensive, non fa che manifestare il proprio pensiero sulle conseguenze derivanti da un certo fatto o da una determinata situazione giuridica.

Per queste ragioni, tutte le considerazioni e i richiami di carattere medico svolti dal ricorrente dinanzi la Cassazione, per dimostrare la più grave infermità da cui sarebbe stato affetto V.R. (paralisi sopranucleare progressiva, sindrome di Steele-Richardson-OIszewki, c.d. Parkinson plus, e non la malattia di Parkinson “classica”, ritenuta, invece, dal C.T.U.), che poi deduce appunto “l’omesso esame”, eccedono la funzione cui è deputato il giudizio di legittimità.

Ad ogni modo, i ricorrenti asseriscono che l’incapacità naturale, non richiedendo come necessario uno stato morboso che sopprima totalmente le facoltà intellettive, possa essere dimostrata anche (o solo) dall’entità del pregiudizio che all’interessato sia derivata per effetto della attività negoziale posta in essere.

Tale affermazione, ictu oculi, è del tutto illogica.

L’annullamento del contratto per incapacità naturale

Il primo comma dell’art. 428 c.c., inerente ai soli atti unilaterali, opera in presenza di 2 condizioni, vale a dire l’incapacità naturale (anche solo transeunte) e il grave pregiudizio che l’atto possa arrecare al disponente. Ergo, ipotizzare che l’atto contestato sottoscritto da VR, rilevi o possa rilevare anche in funzione dimostrativa dell’incapacità, nel senso che la prova di questa dipenda in qualche misura dalla dimostrazione di quello, equivale a sopprimere la necessaria duplicità di condizioni imposta dalla norma.

Riguardo al secondo comma della medesima norma, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che ai fini dell’annullamento del contratto per incapacità naturale – a differenza di quanto previsto per l’annullamento dell’atto unilaterale – non rileva, di per sé, il pregiudizio che il contratto provochi o possa provocare all’incapace.

Infatti, l’ipotetico pregiudizio che il contratto firmato possa provocare danni “all’incapace” è solo un indizio della malafede dell’altro contraente; la diversità di disciplina contenuta nell’art. 428 c.c., sottende appunto la diversa rilevanza sociale degli atti unilaterali rispetto a quella dei contratti, poiché nei primi è preminente l’interesse dell’incapace a controllare le conseguenze degli atti compiuti, mentre nei secondi è prioritario l’interesse alla certezza del contratto e alla tutela dell’affidamento della controparte che, non essendo in mala fede, abbia confidato sulla sua validità.

Questo significa, rimanendo sempre nell’ambito applicativo del secondo comma della norma in parola, che il “grave pregiudizio”, anche se non previsto normativamente può svolgere un proprio rilievo indiziante, ma solo per dimostrare non già l’incapacità, bensì la mala fede dell’altro contraente, cioè il secondo dei due requisiti prescritti dalla norma.

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Traslando tutto ciò al caso in analisi, l’esame della esistenza della malafede della controparte, in difetto della prova dell’incapacità naturale, deve ritenersi assorbito, come correttamente ha affermato la Corte di Venezia.

Avv. Emanuela Foligno

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