Nature restoration law, ripristino degli habitat e salute dei fiumi. A che punto siamo?

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Dopo le ripetute e disastrose alluvioni degli ultimi due anni che hanno interessato in particolare Nord e Centro Italia, gli interventi per la “messa in sicurezza dei fiumi” hanno stravolto gli ecosistemi fluviali: dal taglio a raso degli alberi lungo gli argini, alla rimozione dei sedimenti dagli alvei, dall’innalzamento di muri e di argini, alla impermeabilizzazione dei canali.

L’Emilia-Romagna è un caso di scuola, sebbene il Piano speciale preliminare per la ricostruzione dichiari che la priorità debba essere data a interventi di restituzione di spazio al fiume. Il tutto, inoltre, in aperta contraddizione con la “Nature restoration law“, ovvero il regolamento europeo 1991 approvato il 24 giugno 2024 dal Parlamento europeo e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 agosto dello scorso anno.

“Le normative precedenti si ‘limitavano’ a chiedere la protezione della biodiversità. Con la Nature restoration law viene richiesto agli Stati membri non solo di proteggere la biodiversità, ma anche di ripristinarla -spiega ad Altreconomia Costanza Cernusco, della Commissione europea, direzione generale Ambiente-. Il regolamento prevede che entro il 2030 gli Stati membri attuino misure di ripristino efficaci per coprire almeno il 20% delle zone terrestri e almeno il 20% delle zone marine, al fine di aumentare la biodiversità, le funzioni e i servizi ecosistemici; inoltre entro il 2050 dovranno essere ripristinati tutti gli ecosistemi danneggiati. La Nature restoration law pone come obiettivo vincolante anche il ripristino di quelli agricoli e urbani e della connettività dei fiumi. Ogni Stato membro dovrà provvedere alla redazione di un progetto di piano nazionale di ripristino e presentarlo alla Commissione entro il primo settembre 2026. Il piano ha un orizzonte temporale fino al 2050 e include la quantificazione delle zone da ripristinare, la descrizione delle misure previste o attuate e il calendario per l’attuazione di tali misure. Importante sottolineare che le misure di ripristino devono essere messe in atto subito e non aspettare che i piani nazionali di ripristino siano finalizzati”.

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Per quanto riguarda gli ecosistemi fluviali, l’obiettivo imposto dalla Restoration law è ripristinare entro il 2030 a livello di Ue almeno 25mila chilometri di fiumi a scorrimento libero, privi di ostacoli, dove la connettività sia sufficientemente garantita e le specie possano muoversi liberamente, sia longitudinalmente sia orizzontalmente, verso la piana alluvionale e i canali secondari.

“Il ripristino della connettività fluviale è un’azione necessaria anche per adattare i territori ai cambiamenti climatici in corso, tanto che varie azioni di rinaturazione sono previste anche nel Piano nazionale adattamento cambiamenti climatici (Pnacc) -dice Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf)-. La temperatura dell’acqua dei fiumi sta infatti progressivamente aumentando, numerosi tratti fluviali restano in secca molto più a lungo rispetto al passato e varie specie rischiano l’estinzione. La possibilità di trovare rifugio nei canali secondari, più freschi, diventa quindi di fondamentale importanza. Va ripristinata anche la connettività longitudinale, dando la possibilità alle specie di spostarsi a monte dove l’acqua è ancora presente o le temperature sono più basse. Gli ostacoli (briglie, dighe) vanno invece rimossi anche perché riducono il transito dei sedimenti a valle, determinando l’incisione degli alvei e di conseguenza l’abbassamento delle falde acquifere con la risalita del cuneo salino. Senza sedimenti trasportati dal fiume si aggrava infine il fenomeno dell’erosione delle spiagge”.

Secondo Goltara è importante anche mantenere la vegetazione ripariale: “Riduce la temperatura dell’acqua, favorisce la fitodepurazione e rallenta la velocità di scorrimento in caso di ‘bombe d’acqua’, in molti casi può contribuire a ridurre il rischio di piene a valle. Purtroppo l’uomo nei decenni è intervenuto strappando terra all’ecosistema fluviale, ma ora la Nature restoration law ci chiede di invertire la rotta. Ripristinare la connettività idraulica orizzontale tra fiume e piana, tramite l’arretramento o in qualche caso la rimozione di argini”.

I fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) prevedono in teoria finanziamenti per interventi di riqualificazione fluviale e rinaturazione, eppure i progetti di questo tipo sono pochissimi. “Il principale, quantomeno in termini di investimento, è il progetto per la rinaturazione dell’area del Po, che consiste prevalentemente nell’abbassare i pennelli di navigazione, permettendo alle acque del fiume di allagare più di frequente gli antichi canali laterali -spiega Goltara-. Per il resto, purtroppo, i soldi del Pnrr nei fiumi si stanno usando in maggioranza per ridurre ulteriormente la connettività e la biodiversità lungo i corsi d’acqua, senza rispettare il principio ‘Do not significant harm’”.

Pendono progetti di messa in sicurezza anche su quei pochi fiumi rimasti “liberi” e naturali. “Il caso del Tagliamento è esemplare -prosegue Goltara- l’ultimo grande fiume ancora ampiamente naturale delle Alpi, a canali intrecciati, con una immensa riserva di biodiversità, studiato da centri di ricerca e università di tutto il mondo, proprio questo fiume sta per essere ‘imbrigliato’ con la costruzione di un ponte-traversa tra Spilimbergo e Dignano e una cassa di espansione fuori alveo a Varmo. Le casse di espansione sono opere che hanno in genere un forte impatto sulla dinamica del corso d’acqua e quindi sulla sua biodiversità, inoltre, come ogni opera idraulica, non garantiscono la messa in sicurezza del territorio, possono solo mitigare il rischio”, precisa Goltara. Molte associazioni tra cui Lipu, Legambiente, Cirf, Wwf hanno lanciato la petizione “Lasciate che il Tagliamento scorra libero!”.

Secondo le associazioni le alternative alle casse d’espansione esistono: si tratta di restituire, dove possibile, ulteriore spazio al fiume, di delocalizzare o ridurre la vulnerabilità di alcuni beni a rischio, eventualmente di rivedere le portate di piena che possono transitare all’interno di canali scolmatori esistenti o da realizzare.

Buoni esempi vengono da Oltralpe. In Francia, l’Agence de l’eau rhône méditerranée corse ha da alcuni anni intrapreso un’estesa azione di ripristino dei flussi di sedimenti lungo tutto il bacino del Rodano con la rimozione di 800 briglie, l’arretramento di difese spondali e argini, delocalizzazione di strade e abitazioni. Anche nel bacino del fiume Ebro, in Spagna, dopo varie disastrose alluvioni, con un piano di interventi da 13 milioni di euro da implementare tra il 2021 e il 2027 sono stati rimossi o arretrati argini, lasciando inondare aree naturali e agricole.

Sempre secondo il direttore del Cirf, occorre poi iniziare a pianificare azioni di “stombamento” dei corsi d’acqua. In Italia parliamo di migliaia di chilometri di corsi d’acqua tombati. L’alluvione nelle Marche del settembre 2022 ha avuto origine proprio dagli sbarramenti, tombamenti e deviazioni che ha subito il fiume Burano nei pressi di Cantiano (PU). Anche a Bologna i torrenti cittadini tombati sono esplosi più volte in questi anni, allagando case e cantine.

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In aperta contraddizione con la Nature restoration law c’è infine il faraonico progetto della diga di Vetto, tra Parma e Reggio Emilia: “Un grande bacino artificiale di oltre quattro chilometri quadrati sommergerà l’alta Val d’Enza, stravolgendo per sempre il corso del torrente Enza. Il tutto per alimentare l’agricoltura industriale della Val Padana e i prati stabili a servizio degli allevamenti del Parmigiano Reggiano”, spiega Duilio Cangiari del Comitato per la salvaguardia del Torrente Enza, una combattiva rete di associazioni che ha prodotto il docufilm “La Valle Ferita”, del regista Alessandro Scillitani.

“Un comparto, quello del Parmigiano Reggiano, che da anni registra aumenti di produzione record con oltre quattro milioni di forme prodotte nel 2023 esportate in tutto il mondo. -conclude Cangiari-. Si persegue così la pura crescita quantitativa, oltre ogni capacità di sopportazione ambientale. In primo luogo quindi noi chiediamo di ragionare in termini di riduzione della quantità prodotta, poi di gestire meglio la risorsa idrica. Anziché mega-bacini noi proponiamo di stoccare le acque nel sottosuolo con la ricarica controllata della falda, tecnica che costa infinitamente meno e non ha contraccolpi ambientali. Esiste già un esempio nella Valmarecchia”.

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