Sassari, ritorno in classe tra sberle e risate: i bimbi del ’64 a lezione di amicizia

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Sassari Erano esattamente 60 anni che Danilo Mattei aspettava questo momento. Il maestro, che gli aveva tirato le orecchie così tante volte da farlo diventare un piccolo Dumbo, adesso era immobile davanti a lui, e non aveva più scampo. Era arrivata l’ora della sospirata vendetta. Ha afferrato il coltello, e lo ha affondato con pupilla predatrice. “Tiè – ha urlato – beccati questo” mentre la lama, con un preciso fendente, tagliava la testa di netto. E gli ex compagni di classe hanno esclamato “Oleeee”, ridendo a crepapelle. Poi ha continuato a tagliare la fettina di torta alla crema tutto divertito, tra gli applausi generali.

Le rimpatriate, quando non ci si vede da più di mezzo secolo, sono fatte così. Si cazzeggia, si ride e si fa a fette il proprio passato color seppia. La loro fotografia, stampata in bianco e nero sulla torta dell’anniversario, recita: “Sessant’anni fa eravamo in prima elementare”. Loro sono i bambini del 1964, scuola Sacro Cuore, grembiule scuro, colletto candido e fiocco rosso: Augusto Garau, Giuseppe Canu, Tullio Torru, Francesco Santu, Nando Deligia, Tonino Satta, Piero Delogu, Massimo Dedola, Antonio Dedola, Franco Dachena, Danilo Medde, Giuseppe Ungolo, Danilo Mattei, Francesco Piras, Angelo Serra, Costantino Foddai, Mariano Tola e Angelo Poddighe. E 10 anni fa, dopo 50 anni, si sono rincontrati per la prima volta. Torta con immagine di classe, e loro che posano nella stessa identica posizione, per riattualizzare i ricordi.

Questa riunione del 2015 è diventata tradizione, e l’upgrade con la stessa istantanea, e sempre con il medesimo schieramento, è andato in scena una settimana fa. Sono tutti allievi del maestro Giovanni. Insegnante all’antica, nato nel 1917, dai metodi non esattamente montessoriani. «Poca pedagogia, ma un beh di ciaffi». Anche il maestro li chiamava diversamente. «Con un eufemismo amava definirli scappellotti – racconta Tullio Torru (impiegato comunale in pensione) – che suonava decisamente meglio. Così li chiamava con i nostri genitori. Ma erano “ciaffi avveru”, e li distribuiva generosamente ogni santo giorno». Tanto che Tullio teneva la contabilità degli “scappellotti” nel suo personalissimo diario, e lo aggiornava quotidianamente. «In quinta ne avevamo collezionato diverse migliaia». Il record giornaliero però ce l’ha Francesco Piras (ex docente di scuola superiore), e ne va fierissimo: «54, un numero stampato sulle guance e nella memoria, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Il mio numero fortunato».

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Aveva qualche problemino con l’aritmetica, e maestro Giovanni non faceva sconti. La matematica era la sua ossessione, e l’unità di misura era lo schiaffo. Tradotto: un errore = un “ciaffotto”. Un alunno discalculo, in quella classe, sarebbe sopravvissuto un mese. «Quella divisione io l’ho sbagliata 54 volte – dice Francesco – ma alla fine l’ho capita eccome». Anche per l’italiano e la grammatica maestro Giovanni aveva il suo metodo collaudato: didattica a suon di sberle. «Un giorno mi fa leggere un testo – racconta ancora Tullio Torru – e come sempre si mette dietro di me, in posizione d’attacco». Lo scolaro, per istinto di sopravvivenza, declama come fosse un piccolo Gassman alle prese con la Divina Commedia. «A un certo punto c’era la parola Glicine, e io, che non l’avevo mai sentita, faccio l’errore di pronunciarla come coniglio». Il maestro non fa una piega, lo fa finire, e poi da dietro gli assesta un ceffone.

«Rileggi!!! – mi dice – ma senza dirmi quale fosse l’errore. E io non avevo la più pallida idea di dove avessi sbagliato». Passava in rassegna le parole come uno scanner, ma niente. Glicine non veniva mai fuori come Ghilicine, il GLI era sempre quello di coniGLIo. «Mi ha salvato la campanella, ma prima di tornare a casa sono corso nella fontana di via Pietro Micca, e con un telo imbevuto d’acqua mi sono fatto gli impacchi sulle guance per spegnere l’incendio. A quei tempi mamma e papà mi avrebbero dato il resto». I compagni ridono: «Ma dì la verità: quanto leggi bene adesso? Pure le pause giuste…». Nel 1964 mica c’erano i dislessici, i disgrafici o gli iperattivi: c’erano i bravi e gli asini, questa volta senza eufemismi. E le tirate d’orecchie, per maestro Giovanni, erano il miglior approccio pedagogico.

«Nando Deligia (ex poliziotto) non era proprio uno scolaro modello – raccontano i compagni – era l’unico ripetente in prima elementare. Se Francesco Piras ha il record giornaliero di schiaffi, il primatista indiscusso di ciaffotti quinquennali è Deligia. Non c’era gara per nessuno”. E Massimo Dedola (ex dirigente medico): «Però a Francesco Dettori, figlio dell’onorevole, uno solo schiaffo. Bella democrazia». Invece Antonio Dedola (ex macellaio) ricorda ancora il primo giorno di scuola. «Vedo un bambino che piange, mi spavento, non voglio entrare. Mia madre si affida al maestro, la tranquillizza: stia serena, ci penso io. E infatti mi lascia lì, seduto fuori dall’aula, a singhiozzare fino alla campanella. Il giorno dopo, però, sono entrato senza fare storie».

Era severissimo e amava il suo mestiere: «Tutti speravamo che non venisse, ma in 5 anni avrà fatto 3 giorni di assenza – dice Augusto Garau (ex ferroviere)– e si tratteneva anche mezz’ora in più». E poi c’era il terrore per la sua 850 grigia: «Appena la vedevamo per strada scappavamo tutti. Perché significava che non stavamo studiando». Qualcuno lo ha rivisto molti anni dopo. «Me lo immaginavo enorme – dice Angelo Serra (ex funzionario di Banca) – invece eravamo noi degli scriccioli. Sul maestro scherziamo, ma lo ricordiamo con affetto. È la persona che ci ha insegnato l’impegno e la disciplina». Giuseppe Canu (ex oss) conserva la pagella, datata 1965: «Guardate qui, non ero così male. Aritmetica 8, comportamento 10». E Piero Delogu (direttore di distretto Asl, l’unico che di andare in pensione non vuole saperne), chiude l’amarcord con la riflessione più dolce: «Sapete la differenza tra i compagni delle elementari e quelli di medie o liceo? L’ingenuità e la purezza d’animo. A 10 anni non c’è posto per la malizia o le cattiverie. Ti unisce un’amicizia genuina. E quell’affetto ti resta per la vita. Loro per me sono come fratelli». Il tempo può segnare le rughe, ma certi legami restano impressi, come il primo giorno di scuola.



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