Lastrigiano fiorentino. Piccola cronaca dagli anni 70 – Il primo amore

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È una sera di inizio giugno. Roberto è uno dei tanti giovani che frequentano il posto che è la grande novità di quell’estate del 1981: la prima discoteca della zona. “Noi all’epoca non dicevamo discoteca m a dancing. Non con la pronuncia all’inglese, eh: dancing proprio, come è scritto”, ci tiene a precisare. Siamo dalle parti di Scandicci. La discoteca è frequentata da una marea di persone. Roberto conosce una ragazza. Ballano, chiacchierano a lungo, si piacciono. Dopo un po’ fanno come altri: escono dalla discoteca e si appartano nei vicini boschi della Roveta.
A rendere memorabile quella sera non è la novità del dancing, non è la ragazza, né quello che combinano nel bosco. Quella volta rimarrà indelebile nella memoria di Roberto perché la sera successiva, il 6 giugno del 1981, Carmela e Giovanni, due ragazzi che dopo aver ballato in quella stessa discoteca si appartano in quello stesso bosco, vengono uccisi dal mostro di Firenze. È il terzo dei delitti, a distanza di sette anni dal secondo. “Ogni volta che ci penso, sono attraversato da un brivido che non ti so descrivere”, mi racconta Roberto.
Oggi ho deciso di trascorrere la giornata con lui. Roberto da sempre vive a Lastra a Signa, un posto poco lontano da Firenze. Mi dà appuntamento alla Casa del Popolo di Tripetetelo. Ci tiene a portarmi lì, perché è il luogo che lo ha svezzato umanamente, politicamente, sentimentalmente.
Gli chiedo ancora di quegli anni e di come facessero ad appartarsi con le ragazze, dopo quei tragici episodi. Rinunciavano? “Macché. Un po’ i genitori cambiarono mentalità e aprirono le case. Soprattutto, i ragazzi si organizzarono. Veniva fissato un orario e un posto preciso. 30 – 40 macchine in un piazzale erano sufficienti a sentirsi al sicuro. In quel periodo c’era una paura nera, credimi. Il primo omicidio tanto e tanto, ma quando cominciarono a ripetersi a breve distanza…”. Roberto poi mi racconta di sé. “Da piccino ero irrequieto, indisciplinato. Mi piaceva andare per i campi”. Poi scopre la poesia, che gli guarisce l’inquietudine. La poesia lo accompagnerà sempre e lui avrà un particolare riguardo per quella toscana verace, realistico-giocosa che sente sua, perché racconta perfettamente i luoghi in cui ha vissuto, le persone che ha incontrato. Alla Casa del Popolo sente declamare i sonetti di Cecco Angiolieri, il Dante della tenzone con Forese, le rime del Burchiello.
L’amore per la poesia lo convince a iscriversi alla facoltà di Lettere, a Firenze. Così entra in contatto con gli ambienti artistici legati soprattutto al teatro e al cinema. Sono soprattutto le lezioni di Pio Baldelli a lasciare il segno. “Era docente di storia del cinema e le sue lezioni venivano frequentate da un branco di studenti anche di altre facoltà. Portava spesso con sé ospiti, personaggi noti e poco noti. Ricordo che una volta arrivò a lezione con un ragazzo magrolino, avvolto dentro a un loden verde gigantesco. Ci parlò del suo primo film, che aveva girato in Super 8, Io sono un autarchico. Mi ricordo anche di Marco Ferreri, Dario Fo e tanti altri”.
Chiedo a Roberto qualcosa in più su Pio Baldelli. “Era contemporaneamente animatore culturale, critico cinematografico, uomo politico. O forse nessuna delle tre cose. Perché era un tipo particolare, alternativo, difficilmente inquadrabile. Questo era il suo bello. Ci parlava di controinformazione, di cultura di massa. Aveva già capito un sacco di cose”. Al di là della frequentazione universitaria, Roberto ha modo di conoscerlo da vicino. “Qualche volta andavamo a cena insieme anche con altri amici. Erano gli anni in cui divenne direttore di Lotta Continua. Ricordo una volta a cena una sua stroncatura epica di Novecento di Bertolucci, che a me era piaciuto tantissimo. Ne discutemmo a lungo”.
Durante gli anni universitari di Roberto, Firenze è culturalmente molto attiva. Lui frequenta la casa di una ragazza in via della Mattonaia, luogo di ritrovo di pittori, letterati, critici. “Un salotto in piena regola, come si usava dire una volta”.
A un certo punto a un’altra delle lezioni di Pio Baldelli viene invitato un altro ragazzo pure lui magrolino. Indossa occhialoni massicci e tiene i capelli scarruffati. Fa dei monologhi irresistibili davanti alla platea degli studenti. Lo chiamano ‘il Benigni’. Roberto ne rimane affascinato e insieme ad altri amici costituiscono un piccolo gruppo che segue fedelmente questo ragazzo ai suoi primi spettacoli nei teatrini e alle Case del Popolo, specialmente quella di Capalle e Milleluci, nella zona tra Prato e Campi Bisenzio. “Erano i posti frequentati anche dal Monni. Loro si muovevano in questi ambienti qui, all’inizio. Che poi sono i posti di Berlinguer ti voglio bene, se ti ricordi”.
Gli spettacoli che girano in quel periodo alle Case del Popolo sono quelli in vernacolo e le commediole. Un’alternativa saltuaria alle tombolate e ai tornei di carte. “Il Benigni invece stravolse tutto. Proponeva una cosa completamente diversa. Uno spettacolo strampalato, geniale, dal linguaggio estremamente scurrile e pecoreccio. Infatti dopo pochi minuti le persone si alzavano, riprendevano la sedia che si erano portati e se ne andavano. Specialmente chi aveva con sé i bambini”.
Roberto conserva pochi ricordi di Benigni all’epoca, al di fuori degli spettacoli. “A volte era cupo e malinconico. Ma succedeva spesso, specialmente a cena, che si scatenasse. Montava sulla sedia, declamava versi, cose così. Nonostante il fisico gracilino, in quei momenti pareva un gigante”. Roberto comincia a fare supplenza a scuola. Si sente felice e realizzato. Poi arriva la chiamata dal ministero di Grazia e Giustizia. Lui ci rimugina parecchio ma alla fine si decide. Viene assunto in
Corte di Appello a Firenze. Ironia della sorte, sono gli anni del processo Pacciani, che Roberto segue con attenzione.
Sette anni dopo entra di ruolo a scuola. “Gli anni trascorsi alla cancelleria mi sono serviti tantissimo per il mestiere di insegnante. Ho imparato a sdrammatizzare, a pormi in maniera sempre più costruttiva con le persone, soprattutto a mediare. Fare altri lavori secondo me aiuta molto nella professione di insegnante. Altrimenti rischi di rimanere prigioniero di una bolla”.
Roberto diventa subito vicepreside di un Liceo Artistico. Gli piace stare con i ragazzi, gli piace la scuola, gli piace l’atmosfera che si respira nei corridoi e nelle classi. Si diverte, si sente a suo agio. Ha un approccio molto leggero, mai severo, sempre costruttivo. “Sono convinto che se fai muro contro muro, se li prendi di punta, con i ragazzi non ottieni niente. Anzi. Se invece gli fai sentire che hai fiducia in loro, alla fine ti ripagano. Mi riferisco in particolare ai ragazzi con situazioni familiari difficili. Per loro la scuola può fare molto. A patto di cercarli, ascoltarli, provare a capirli. Mi è capitato parecchie volte di regalare copie di Lettera a una professoressa, negli anni”.
Roberto ci tiene a raccontarmi una cosa in particolare, che ancora lo fa sorridere. Si ricorda di un alunno che aveva al Professionale, tale Vincenzino, fissato con il pallone. “Si allenava tutti i giorni e trascurava lo studio. Era un bravo ragazzo, educato. Io insistevo di continuo con le raccomandazioni: ‘Vedi, Vincenzo, nella vita non c’è solo il calcio. Guarda quanti sono quelli che giocano, eppure pochissimi riescono a sfondare. Tu gioca, divertiti, ma non ti fissare troppo su questa carriera. Pensa a studiare piuttosto’. Ecco, sai come faceva di cognome quel ragazzo? Montella. Era Vincenzo Montella (un importante giocatore della Serie A e oggi allenatore, ndr). Tempo fa mi è capitato di incontrarlo e mi ha fatto un sacco di feste. Evidentemente quello di studiare, di formarsi, di farsi una cultura era un consiglio buono a prescindere. Peraltro io non mi sento di darne tanti, di consigli, anche perché sono convinto che la mia vita è sempre stata costellata da grandi cavolate. O allora! Che male c’è?”.

Still: Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci

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