Il nostro “piccolo oceano”, il Mediterraneo – che se non fosse per lo sbocco dello stretto di Gibilterra sarebbe un grande lago – sta soffrendo. E con lui soffrono le comunità che traggono sostentamento dal mare, in primis i pescatori. I mutamenti più evidenti sono l’innalzamento della temperatura – fino a 4°C in più – con un conseguente mutamento nella composizione della flora e della fauna marine.
La tropicalizzazione delle acque ha aperto la strada a circa ottocento specie aliene, trasformando la crisi ambientale in diverse crisi sociali. La colpa però non è – tutta – del granchio blu et similia. Secondo il Wwf Seafood l’88 per cento degli stock ittici del mar Mediterraneo risulta sovrasfruttato.
Se guardiamo all’Italia, sulle nostre tavole c’è più pesce di quanto se ne possa pescare nei nostri mari o allevare negli impianti di acquacoltura. La pesca artigianale fa fatica a sopravvivere a causa della concorrenza della pesca industriale, di quella illegale, della scarsità di risorse disponibili, oltre che delle scelte di consumo che si orientano sulle poche specie pregiate: solo nel Mediterraneo esistono oltre 500 specie, ma in tavola ne finiscono una ventina.
Da vincolo a opportunità
L’ultimo rapporto Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) sottolinea come le politiche italiane continuino a mostrare un’attenzione marginale ai Target del Goal 14 “Vita sott’acqua”. Tra le criticità c’è l’estensione delle Aree marine protette italiane, pari all’8,3 per cento delle acque territoriali, un dato lontano dall’obiettivo europeo di proteggere il 30 per cento delle aree marine entro il 2030.
L’acronimo Amp è una sigla che non sempre piace ai pescatori che, di base, come spiega Giulia Visconti, direttrice dell’Area marina protetta di Capo Milazzo, temono i divieti: «Ma è tutta una questione di rapporto diretto tra loro e noi», continua Visconti, «perché è importante far capire che le Amp sono un’opportunità e non un vincolo: nelle aree protette lo stock ittico si ripopola più facilmente, le licenze di pesca vengono rilasciate solo ai pescatori locali, i quali vengono aiutati nella richiesta di fondi Feampa (Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura) per l’adeguamento delle imbarcazioni, li aiutiamo nelle conversioni temporanee delle attività, come il pescaturismo e il turismo ambientale in barca».
C’è poi il contatto con i ristoratori e i consumatori tramite Abalobi, una app che consente ai pescatori di vendere direttamente il pescato: «Si tratta di pesce fresco», specifica la direttrice, «completamente tracciabile, pescato in modo sostenibile. L’app prende i dati immessi dai pescatori e consente agli scienziati di gestire meglio la pesca e le popolazioni ittiche».
Questo tracciamento è utile anche per valorizzare le specie neglette sui mercati locali. Così è accaduto con l’evento “Da Capo a pesce” dove diversi chef si sono cimentati in cucina con sauri, scorfani, mennole, sgombri e vope.
400 per cento in più
Nel Brindisino i pescatori che lavorano con l’Area marina protetta di Torre Guaceto sono parte di una storia a lieto fine. Dove un tempo si pescava anche con le bombe, ora si registra un ripopolamento ittico del 400 per cento e, come sottolinea Sandro Ciccolella, direttore dell’Amp di Torre Guaceto, «la resa di pesca nell’area protetta è pari al doppio rispetto a quella che si registra al suo esterno». Nel maggio 2017, Slow Food ha assegnato a questo modello lo status di presidio, un riconoscimento che va non a un prodotto ma a una pratica.
«Nell’area C, l’unica dove è possibile pescare», continua Ciccolella, «c’è abbondanza soprattutto di cefali. Un pesce che ha conosciuto un nuovo consumo grazie all’accordo, fatto nel 2019, con l’azienda tarantina conserviera Colimena che ha messo sott’olio il muggine. L’1 per cento degli utili va in favore dell’ente gestore della Riserva».
Ci sono voluti trent’anni, ma anche l’isola di Salina avrà la sua Amp. L’esistenza di tre diversi comuni, Santa Marina, Malfa e Leni, non ha facilitato il percorso, ma tutto ha avuto una spinta diversa quando l’iniziativa ha preso forma dal basso, con l’aiuto di un ente esterno, la Blue Marine Foundation. Giulia Bernardi è la biologa marina che sull’isola rappresenta l’organizzazione inglese: «Dal 2016 mettiamo a confronto tutte le voci: pescatori, albergatori, ristoratori.
L’approccio è quello bottom up, per un coinvolgimento di tutta la comunità che deve capire che la custodia del mare va a braccetto con l’abbondanza di pesce nelle reti. È nato così un codice di condotta volontario condiviso tra i pescatori di Salina e di Stromboli, molto più restrittivo di quello nazionale. Prevede che si usino meno nasse, reti meno lunghe, che si rispetti la stagionalità».
Tra gli interlocutori ci sono anche i ristoratori che, da qualche anno, hanno in vetrina una vetrofania che spiega che in cucina entra solo pescato da pesca responsabile. L’estate scorsa è nato il progetto “Salina Isola Blu”, che ha visto i pescatori dell’Associazione Pesca Responsabile di Salina fornire ai ristoratori aderenti boghe, pesci prete, sauri, menole e caponi per piatti che una volta si preparavano in tutte le case dell’isola.
Il museo sottomarino
Queste strategie win-win, vincenti per l’ambiente e per la popolazione locale, possono passare anche attraverso altri canali. Per Valentina Tepedino, direttore del periodico Eurofishmarket, sono le organizzazioni di produttori, costituite da pescatori o acquacoltori che si associano liberamente per garantire migliori condizioni di commercializzazione: «Le Op sono riconosciute a livello europeo», spiega Tepedino, «e ciò le aiuta a essere meglio rappresentate sia verso le istituzioni che sul mercato. Porto l’esempio dell’O.P. Bivalvia Veneto che opera nel mare Adriatico: circa 100 imbarcazioni e 300 pescatori associati, conosciuti anche come I PescaOri, che si occupano della raccolta di molluschi bivalvi, per lo più vongole di mare e lupini. Seguono un protocollo sulla quantità da pescare, sugli orari di inizio attività e di sbarco del prodotto e sui periodi di fermo biologico della pesca. Inoltre, sono prodotti che permettono di ridurre gli sprechi in cucina, perché sono già puliti e pronti all’uso».
Chi ha invece l’aspetto di un “eroe solitario” nelle sue battaglie ambientaliste è Paolo Fanciulli, pescatore di Talamone, in provincia di Grosseto. Più di sessant’anni in barca a lavorare in un mare sempre meno pescoso. Contro la pesca industriale e quella illegale – che lui vede fare di notte anche all’interno delle aree marine protette – ha messo sé stesso, andando a speronare barche che lavoravano con reti a strascico o addirittura con catene (queste tecniche raschiano il fondale distruggendo e raccogliendo qualsiasi cosa).
Il suo pescato invece lo vende a gruppi di acquisto solidale che gestisce tramite WhatsApp, molto meno alla ristorazione maremmana che, a suo avviso, paga poco. Ha le licenze di pescaturismo e di ittiturismo e quando non cucina in barca quello che ha tirato su, lo fa a casa, aprendo il suo salotto ai turisti.
Ma il pescatore toscano è noto nel mondo per “La Casa dei Pesci”, una sorta di landing art subacquea, nata per scongiurare la pesca a strascico entro le tre miglia: «Tra Talamone e Punta Ala», spiega Fanciulli, «stava sparendo ogni cosa, pesci, coralli, posidonia. L’idea è stata quella di calare in mare dei blocchi di marmo scolpiti. Così, oltre ad avere dei dissuasori, nel tempo è andato nascendo un museo sottomarino che conta circa 40 opere, a sette metri di profondità, visitabile con maschere e pinne».
Oggi le istituzioni lo supportano, insieme a università e centri di ricerca, nonché a grandi brand internazionali sensibili alle cause ambientaliste.
Così Paolo il Pescatore ci ha preso gusto e la prossima casa sarà dedicata ai polpi, attraverso l’installazione permanente sul fondale marino di 1.250 tane artificiali costruite in terracotta. È attiva una sottoscrizione e sul sito de La Casa dei Pesci, volendo, se ne può adottare una. Prima della posa il proprio nome verrà scritto sulla futura casa di un polpo.
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