Due anni, pena sospesa. «Quei bonifici non erano per me», si è sempre difeso. La Corte tributaria gli dà ragione: manca la prova fosse l’unico beneficiario. Risarcimento da 70 mila euro alla parte offesa
Al terzo tentativo, su richiesta della difesa (rappresentata dall’avvocato Gianbattista Scalvi) ha patteggiato la pena (sospesa): due anni, per furto. Nell’azienda di mangimi per animali, in cui lavorava, che ha sede nella Bassa bresciana. Il Tribunale ha disposto anche un risarcimento da 70 mila euro al legale rappresentante in quanto parte offesa a processo. Stando al capo di imputazione, «approfittando della sua qualifica come responsabile amministrativo della società» in questione, l’imputato, 59enne di casa a Lograto, avrebbe ingiustamente effettuato 33 bonifici (6 a favore di una società e 27 di un’altra, riconducibili ad altre due indagate, assolte) per un totale di 787.613, «facendoli apparire fraudolentemente come pagamenti verso fornitori o anticipo fatture», quindi se ne sarebbe «impossessato» sottraendoli all’azienda. «Ma quei bonifici non erano per me» ha sempre sostenuto lui. Le altre due indagate, titolari o liquidatori delle rispettive società beneficiarie delle somme, avrebbero poi girato oltre 608 mila euro «a favore di soggetti terzi beneficiari e in pagamento di prestazioni con causale non meglio specificata», di cui 157.250 complessivi a un quarto indagato (per lui il giudice ha disposto la messa alla prova).
Olre al binario penale, però, la vicenda ha parallelamente seguito anche quello tributario, con l’Agenzia delle Entrate che chiedeva conto al 59enne del pagamento delle imposte sui presunti profitti illeciti. Ma per due volte, in primo grado e in appello, la giustizia tributaria ha accolto il ricorso della difesa, preso anche atto nel frattempo della decisione del Riesame circa i sequestri. Scrive la Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, che «i giudici di prime cure hanno evidenziato come non vi sia alcuna prova che i bonifici potessero essere effettuati unicamente dal contribuente – e che siano stati fatti di sua iniziativa – il quale peraltro figurava in ferie nei giorni in cui ne furono disposti sei». Sebbene dipendente, con la mansione di responsabile amministrativo, «comunque sprovvisto di cariche dirigenziali e quindi della facoltà di assumere poteri decisionali, non è nemmeno detto che le semplicissime, ma artificiose, contabilizzazioni siano state da lui architettate e poste in essere».
«Non si esclude quindi che possa intravedersi una corresponsabilità» del 59enne, in quanto avrebbe dichiarato che «la misura dei bonifici veniva indicata dal datore di lavoro in base alle sue necessità»: dirimente, tuttavia, continua la Corte, «è la mancanza della prova che egli sia stato beneficiario finale di tali somme, quindi non è provato il reddito in capo allo stesso». Infatti, continuano i giudici tributari, «nel corso degli accertamenti svolti non si è riscontrato alcun movimento bancario di rapporti finanziari del contribuente, che peraltro sono stati poi sbloccati dalla magistratura penale».
Anche per i giudici tributari di primo grado il responsabile del meccanismo fraudolento, «sapientemente architettato» e che «ha portato alla distrazione di ingenti somme», «non può che essere individuato, in primis, nel legale rappresentante della società che, se non da lui poste in essere, quale delegante, aveva l’obbligo di controllo sull’attività del soggetto delegato, quindi a titolo di ‘culpa in vigilando’, pure riguardo alle artificiose scritture contabili» che potrebbero essere state effettuate dal 59enne ma, probabilmente, «su volere o ordine non scritto di terzi, vista la subordinazione del rapporto di lavoro».
Di conseguenza, «l’Agenzia doveva provare che l’intruso è stato l’effettivo possessore del reddito dato dalle distrazioni, sia pure sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che nel caso di specie non sono ravvisabili, assumendo rilievo puramente congetturale».
Da ultimo, «non meno rilevante è quanto correttamente evidenziato dalla difesa dell’appellato in sede di controdeduzioni, laddove, con analisi scrupolosa, sottolinea come proprio il richiamo all’ordinanza del Tribunale del Riesame smentisca la ricostruzione» iniziale. In sintesi, il grosso del sequestro preventivo riguardava gli altri tre indagati, pertanto, «anche laddove fosse riconosciuta la sua responsabilità penale – del dipendente 59enne – solo una piccola parte delle somme sottratte dal 2015 al 2019 alla società potrebbe a lui imputarsi come reddito diverso (illecito) derivante dalla sua corresponsabilità nei fatti contestati, e sempre che questo non venga sequestrato dall’autorità giudiziaria».
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