Una suora prega nella Grotta della Natività: la stella indica il punto in cui, secondo la tradizione, è nato Gesù – Ansa
Poco prima del tramonto, il sole lambisce i blocchi bianchi della Basilica della Natività, facendoli brillare. Per un momento, il loro scintillio riporta la memoria ai dicembre passati quando ovunque era un tripudio di luci. L’illusione, per chi costeggia Milk Grotto Street, dura qualche istante. Niente, però, attutisce il silenzio di pietra che avvinghia la cittadina natale di Gesù. A ogni passo, l’eco del vuoto si amplifica. È il suono dell’assenza. Dopo quasi quindici mesi di guerra, Betlemme è una somma di assenze: di pellegrini, di curiosi, di fedeli, di famiglie in festa, di addobbi. Assenza di parole per gridare al mondo la propria sofferenza. Si affaccia, dunque, al Natale 2024 – il secondo di offensiva su Gaza –, con un mutismo eloquente. Nemmeno le iniziative di solidarietà con la Striscia, che avevano caratterizzato il 24 e 25 dicembre scorsi, avranno luogo. Il grande Presepe che ritraeva Maria e Giuseppe fra le macerie di una casa, con il neonato in braccio, non riempirà Manger square, la piazza della Mangiatoia. Stavolta la distesa di ciottoli di fronte alla Natività sarà lasciata deserta, a parte i due chioschetti che vendono pop corn, caffè e noccioline. «Abbiamo già detto troppo. La comunità internazionale, però, rifiuta di ascoltarci. Osserva indifferente il massacro dei palestinesi. Un inverno è passato, un altro è appena iniziato e nulla cambia. Cos’altro potremmo aggiungere? Il silenzio è il messaggio. Attenzione, però: con l’eliminazione di addobbi e luci, l’Autorità nazionale palestinese e il Comune di Betlemme non stanno cancellando il Natale. Ne sottolineano la sostanza: la Messa e la preghiera che si svolgeranno come di consueto. Abbiamo tolto il superfluo: alberi, decorazioni, cori», afferma Anton Salman, sindaco della cittadina della Cisgiordania che un muro, insieme medievale e high tech, divide dalla limitrofa Gerusalemme.
Dall’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, i sette punti di attraversamento che la circondano funzionano a singhiozzo. Il flusso in uscita è, comunque, ridotto alle eccezioni. Ai quasi 20mila impiegati “dall’altra parte”, il permesso di entrata è stato congelato dalle autorità di Tel Aviv come al resto dei 150mila lavoratori dei Territori. Il check-point Trecento, che riduce il viaggio a una decina di minuti, è insolitamente agibile. Oggi, eccezionalmente, verrà aperto anche il valico alla Porta di Rachele, dal quale farà l’entrata solenne il Patriarca dei latini che giungerà a piedi dalla Città Vecchia. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa presiederà la consueta Messa della Notte a Santa Caterina, all’interno del complesso della Natività, mentre il custode Francesco Patton celebrerà nella Grotta. Infine ci sarà una terza Messa al Campo dei pastori. «Pregheremo per la pace in Terra Santa», ha detto il cardinale Pizzaballa, appena tornato da Gaza dove domenica si è recato nella parrocchia della Sacra famiglia, trasformata in rifugio per circa cinquecento fedeli e 58 disabili musulmani. «C’è un enorme distruzione nella Striscia. Ma i nostri fratelli non lo sono. Mi ha colpito la loro vitalità e fede. Mai li ho sentiti pronunciare una parola d’odio», ha sottolineato il patriarca. E ha aggiunto: «Speriamo che questi siano gli ultimi 24 e 25 dicembre in tono minore per la patria di Gesù. Betlemme senza Natale è monca». Già, monca. Anche Johnny dice di sentirsi così. Il suo negozio – Johnny’s souvenir – a qualche centinaio di metri dalla Natività, a fianco al popolare hotel Alexander, è chiuso. «Almeno non spreco elettricità, tanto non viene nessuno», racconta mentre mostra le centinaia di presepi, icone, croci ammassate sugli scaffali. Nell’attesa prolungata di essere acquistate. «Nel frattempo ho dovuto licenziare i 15 artigiani che le hanno intagliate a mano. Che senso ha produrne altre? Di norma questa sera, tra le 18 e le 20, bussavano alla mia porta dieci bus di pellegrini. Stavolta dovrebbe arrivare una comitiva da dieci persone. E sarebbe un grande dono». Ronnie, invece, tiene aperto il suo “Nativity Store”, l’emporio più antico dei novanta censiti. La sua vetrina, stracolma di souvenir, interrompe la fila di decine di porte sigillate lungo la Milk Grotto street. Anche a lui, però, gli affari vanno male e i venticinque artigiani che confezionano statue e rosari in legno d’ulivo sono fermi. «Un anno fa credevo che sarebbe stata una situazione temporanea. E invece…». La “serrata” di Betlemme prosegue a oltranza. La guerra ha azzerato il turismo internazionale, da cui dipende il 70 per cento delle entrate per la città e il governatorato in cui vivono in 240mila.
Da quasi due milioni tra pellegrini e viaggiatori del 2019 – prima della pandemia – si è passati agli attuali centomila scarsi. «Nei primi nove mesi del 2024, abbiamo avuto il 3 per cento dei visitatori dell’anno precedente. Con perdite da 1,5 milioni di dollari al giorno», spiega Michel Awad, presidente dell’associazione dei Tour operator e titolare dell’agenzia turistica “Angels”. Nelle ultime settimane, c’è stato qualche arrivo in più rispetto alla scorso dicembre grazie ai cristiani di origine palestinese dalle città “arabe” di Israele – Jaffa, Haifa, Nazareth – che hanno ripreso a venire a Betlemme dopo lo choc del 7 ottobre. A questi si sono uniti alcuni pellegrini asiatici. Numeri del tutto insufficienti, comunque, per ridare lavoro ai quasi 8mila tra guide, ristoratori, camerieri, artigiani, rimasti disoccupati. «Il fatto è che il nostro principale mercato sono i viaggiatori da Europa e Usa e questi ultimi non vengono più. Hanno paura anche se non c’è alcun pericolo per chi si muove nelle mete classiche – aggiunge Awad –. Lanciamo un appello a quanti vogliono aiutare la Terra Santa: tornate a visitarci. Abbiamo necessità di voi per sopravvivere e restare nella nostra terra. Soprattutto noi cristiani». La cristi del turismo colpisce con particolare forza la comunità che gestisce la maggior parte di alberghi, ristoranti, negozi. Di fronte al crollo dei guadagni tanti hanno provato a resistere con i risparmi. Finiti anche questi ultimi, sempre di più stanno lasciando Betlemme e dintorni. Secondo il municipio, dal 7 ottobre già sono partite già 480 famiglie cristiane dal governatorato, tra 3 e 4mila persone. Una novantina solo dalla città. L’esodo dei cristiani non è una novità:nella cittadina erano l’87 per cento nel 1950, ora sono intorno al 10 per cento dei 28mila abitanti. Mai, però, in queste proporzioni. Il fatto è che Betlemme è stremata. Anche perché la seconda fonte di reddito – gli impieghi dall’altra parte del muro – è stata falcidiata dal blocco delle autorizzazioni di entrata. Il tasso di disoccupazione è schizzato dal 17 al 45 per cento. Nel campo profughi di Aida, a ridosso del muro, il 95 per cento dei 7mila abitanti sono senza lavoro. «Quattro giorni fa abbiamo ricevuto 70 pacchi alimentari da distribuire – dice Abdel Fattah Abu Srour, presidente del centro culturale Arrawad –. È stato un incubo scegliere a chi darli perché tutti hanno necessità estrema».
E la differenza tra il campo e il resto della città si assottiglia. «Non lavoro da un anno, non ho niente da regalare ai miei figli, non so nemmeno come pagherò l’affitto alla fine del mese – conclude Hana –. I miei cugini sono a Gaza. Piangere, lamentarmi, gridare? È uno spreco di energie. Questo Natale mi resta solo la preghiera, la mia ultima forza”.
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