L’intervista allo stilista Matteo Thiela

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Matteo Thiela, nato a Milano nel 1972 ma attualmente residente a Torino, è uno stilista autodidatta e visionario, celebre per il suo approccio concettuale alla moda. Fin dall’infanzia, ha sviluppato una passione per la sartoria, ispirato dall’attività della madre, arrivando a fondare il suo marchio omonimo. Ha arricchito la sua formazione con una collaborazione con Carla Sozzani per il brand OZEN, collaborato con il gruppo Zegna e ha ricoperto il ruolo di responsabile e braccio destro di Mariuccia Mandelli, fondatrice della storica firma Krizia. Il percorso creativo di Thiela è caratterizzato da una continua ricerca del legame tra arte e moda, ponendo al centro il consumatore come opera d’arte vivente. Artribune l’ha intervistato per parlare, anche, della sua speciale tecnica brevettata.

L’intervista allo stilista Matteo Thiela

Qual è la tua relazione con l’arte?
Da bambino volevo fare l’imbianchino perché lo chiamavo pittore: dare il bianco per me era favoloso. Vedevo questi imbianchini vestiti di bianco, che pitturavano, e trovavo fosse il lavoro più bello del mondo. Ho iniziato a dipingere da giovane in America, ma questa ricerca ossessiva della pittura mi ha spaventato: vedevo una vita di grande sacrificio, di grande ricerca e di costante insoddisfazione. Quando sono tornato in Italia, ho deciso di dedicarmi alla moda, perché negli Anni ’80 uno stilista poteva avere un grande pubblico con cui creare non solo vestiti, ma un micromondo in cui tuffarsi.

Qual è la tua relazione con la moda?
Sono riuscito a lavorare con la moda concettuale perché non ero attratto dall’idea di una moda puramente estetica. Per me aveva senso solo una moda di sostanza e concetto. Ero affascinato dall’architettura del capo d’abbigliamento, e questa ricerca mi ha portato a cercare una strada totalmente mia. Purtroppo, la moda è stata un po’ mangiata dall’idea del vendere, e la parte creativa pura è scemata per tante ragioni storiche.

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Com’è andata a Milano?
A Milano mi dicevano che il mio approccio fosse “artistico”, ma io ho rifiutato l’etichetta di artista. Ho voluto essere un designer per contribuire in una maniera mia, più diretta verso il prossimo. Mi dicono che quello che faccio sia frutto d’arte, ma preferisco pensare alla moda come mezzo per diffondere bellezza e concetti profondi.

Invece, a Torino?
A Torino, per ribellione, ho osato creare una collezione fatta solo di milioni di fili di seta sciolti, con un’unica cucitura. Era un tentativo di vestire o essere vestiti da fili, senza trama né ordito. È stata una collezione concettuale, bella e scenica.

La tecnica sartoriale di Matteo Thiela

Qual è la tecnica con cui crei i tuoi vestiti?
La tecnica è nata subito dopo quella collezione di milioni di fili sciolti. Ho preso un singolo filo di cotone e ho iniziato ad avvolgerlo attorno a un manichino. Girando intorno, mi girava la testa, così ho pensato di far girare il manichino stesso. Ho creato un tornio: il supporto ruota, io mi muovo intorno, danzo e avvolgo i fili. Questo processo crea una sorta di pelle intrecciata. Ho sperimentato con vari materiali, creando una rete che viene poi chiusa con un pennello. È un approccio quasi pittorico: non cucio, ma uso resine trasparenti o colorate per rinforzare la struttura.

È una tecnica brevettata?
Ho brevettato questa tecnica, che ho chiamato Bombix, perché ha un potenziale per una produzione su larga scala, fatta da artigiani o robot. È un sistema che può rendere la creazione di vestiti economica e sostenibile, oltre che innovativa.

Il processo creativo di Matteo Thiela

Qual è il tuo processo creativo?
Sostanzialmente, ho un atteggiamento di estrema umiltà, pur non essendo umile. Mi piace partire da zero, non saper fare nulla e non avere nulla. Questo mi stimola ad accedere a delle sfide partendo dall’amore che provo per un materiale. Sono attratto da materiali nuovi, mai usati, o dal riutilizzo diverso delle cose che trovo. Ho sempre fatto ricerca dappertutto, dai ferramenta alle tecnologie più avanzate. Partire da zero mi permette di creare uno stato di estasi creativa, dove mi sento libero di sperimentare.

E il tuo concetto di bellezza?
La bellezza è una sorpresa emotiva, qualcosa che colpisce inaspettatamente e genera benessere. Lavorando con il corpo femminile, vedo che c’è poca cultura della bellezza come accettazione. Il mondo crea bisogni fittizi che non aiutano a raggiungere la bellezza autentica. Penso che chi lavora nella moda abbia una responsabilità educativa, per ispirare fiducia e proporre concetti che rispettino i diritti e l’uguaglianza.

Cosa ti manca per realizzare i desideri professionali o creativi che hai?
Mi mancano collaborazioni, specialmente con persone di nuove generazioni, per confrontarmi e rimanere contemporaneo. Il lavoro di squadra è fondamentale per trasformare il mio marchio da qualcosa di piccolo a qualcosa di più grande. Spero che il mio nuovo spazio attiri persone desiderose di collaborare e crescere insieme.

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Giorgia Zerboni

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