Il cinema non ha un percorso lineare. Le vette più alte sono state raggiunte durante l’epoca del muto, con l’Espressionismo tedesco e tutto il resto. Poi è arrivato il suono, che è stato subito messo al servizio della retorica delle dittature. Dopo si è imposto il cinema industriale, che richiede molti soldi per essere realizzato. E allora ben venga la sperimentazione, anche attraverso la rielaborazione delle immagini del passato: siamo qui per questo”.
Sono le parole pronunciate dal regista casertano Pietro Marcello, in occasione dell’appuntamento Cinema Night del 13 dicembre scorso (primo di molti altri), che lo ha visto dialogare con il regista rumeno Andrei Ujica e con Luca Mosso, critico cinematografico e direttore di Filmmaker Festival.
La rassegna fa parte del corollario di proiezioni cinematografiche e incontri – co-curato dalla Fondazione Piccolo America-Cinema Troisi – che gravita intorno alla mostra Il Nostro Tempo, CinéFondationCartier (fino al 16 marzo), a cura di Chiara Agradi, presentata nell’ambito del partenariato culturale di Triennale Milano con Fondation Cartier pour l’Art Contemporain. Il prossimo Cinema Night è previsto per l’8 gennaio, quando il regista milanese Michelangelo Frammartino si confronterà con la critica cinematografica Barbara Grespi e con Luca Mosso sul tema della ruralità nel cinema, “tra riti ancestrali, lavoro metodico e paura di un avvenire incerto”.
Che il cinema non abbia un percorso lineare lo conferma proprio questa mostra, Il Nostro Tempo, CinéFondationCartier. Rarissimo esempio di manifestazione in cui l’esperienza cinematografica viene a fondersi con quella espositiva, la rassegna dà vita a un “gioiello” in cui ognuno degli undici film presentati lungo il percorso espositivo (progettato dallo studio di architettura milanese bunker arc) è dotato di un dispositivo di visione ritagliato su misura per le sue esigenze, sia che si tratti di un cortometraggio in 3D (Decades Apart di PARKing CHANche) sia che siano previsti tre film proiettati contemporaneamente su tre schermi affiancati, come nel caso di Le Tryptique de Noirmoutier di Agnès Varda.
Tra i cineasti selezionati, Raymond Depardon e Claudine Nougaret, Andrei Ujica Paz Encina, Artavazd Pelechian – il maestro del “montaggio a distanza”, a cui Marcello ha dedicato Il silenzio di Pelešjan, documentario biografico per immagini –, Jonathan Vinel, Morzaniel Iramari, Wang Bing, quest’ultimo con il colossale e auto-esplicativo 15 hours, visibile, per i più coraggiosi, in due tranche ciascuna della durata di otto ore. “Una delle chiavi di lettura fondamentali di questa mostra sta nel fatto che si contrappone a qualsiasi tipo di standardizzazione della visione cinematografica”, spiega Luca Mosso, che aggiunge:
Il cinema è arte, ma risponde anche a standard industriali, è un prodotto. La sala in quanto istituzione cinematografica impone delle regole che si concretizzano in determinati formati, proporzioni e modalità a cui ci si deve uniformare. La mostra qui organizzata fa un processo inverso, pensando uno spazio apposito, e quindi a una modalità di visione diversa, per ogni film. Questo ci fa capire che non è importante solo cosa vediamo, ma anche come vediamo. Questa riflessione è quanto mai importante oggi, quando le modalità di fruizione si sono moltiplicate a dismisura”.
Proprio il non conformarsi agli standard è una delle caratteristiche del cinema di Pietro Marcello, che per girare i suoi film ricorre tutt’oggi alla pellicola:
È un modo di girare diverso, c’è un aspetto alchemico che con il digitale si perde. Mi emoziona aspettare di ricevere il negativo sviluppato per sapere se ho ottenuto il risultato che speravo, è lì la sorpresa. Un rullo di pellicola 16 mm è lungo 120 metri e dura 11 minuti. Ti devi confrontare con i limiti imposti da questi numeri”.
Un altro tema ricorrente nel cinema di Marcello è l’utilizzo dei materiali d’archivio, scoperto durante la “militanza” nel cinema documentario e mai più abbandonato: “Mi considero prima di tutto un archivista, a volte i miei stessi film diventano materiale a cui attingere per realizzare lavori successivi”. Aggiunge poi:
L’archivio è più potente di qualsiasi finzione, lo è in quanto è già storia. Immagini come quelle dei Lumière, come il celebre L’uscita dalle fabbriche Lumière (il primo film a essere proiettato davanti a un pubblico, il 28 dicembre 1895, a Parigi, ndr), hanno una forza espressiva senza pari: l’archivio mi affascina sempre, soprattutto quando posso rielaborarlo, cambiandone il senso e l’origine.”
Conclude a tale riguardo Luca Mosso:
“Non penso che esista questa superiorità assoluta dell’archivio, ma è importante che Pietro creda fermamente in questa idea, perché significa che le immagini da lui prodotte si devono misurare con quelle d’archivio. La sua è una dichiarazione di umiltà e al tempo stesso di ambizione”.
Le informazioni relative alla mostra, alle proiezioni e agli incontri si possono consultare qui.
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