Dal suo golf club resort di Mar-a-Lago, nell’attesa dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca, il presidente eletto Donald Trump ha recentemente tenuto una dirompente conferenza stampa, durante la quale ha minacciato soprattutto Stati alleati, anticipando la sua visione di politica estera.
Una foreign policy improntata fondamentalmente su una dottrina di “difesa avanzata” il cui obiettivo primario è quello di creare un perimetro stabile e sicuro per gli Stati Uniti, spostando sempre più lontano dalla prossimità l’anello di sicurezza del Paese, basata su una postura strategica più assertiva ed in grado di mobilitare risorse politiche, economiche e militari – proprie.
Mentre il mondo attende qualche anticipazione sul suo ormai celebre piano per “porre fine della guerra in Ucraina in 24 ore”, la comunità internazionale si è ritrovata di fronte ad affermazioni imperialiste e persino minacce contro Stati alleati ed affermazioni del tutto simili a quelle che in questi ultimi 3 anni sono state pronunciate dal presidente Putin: “la Nato lo ha provocato” (Putin ndr) – ha affermato il presidente eletto. Nelle sue esternazioni ha anche dichiarato di avere intenzione di rinominare il Golfo del Messico in Golfo d’America, di utilizzare la coercizione economica, o addirittura la forza militare, per ottenere il controllo del Canale di Panama e la Groenlandia, ha nuovamente minacciato la Ue dicendosi “pronto ad attuare pesantissimi dazi” e, dulcis in fundo annettere il Canada come 51esimo Stato degli Usa.
Le sue critiche alla gestione delle crisi globali da parte dell’Amministrazione Biden, tra cui la guerra Russia-Ucraina e le tensioni in Medio Oriente, si sono trasformate in minacce contro tutti e riflettono la sua convinzione in un approccio che non esclude l’uso della forza (economica e militare) nelle relazioni internazionali, sia contro nemici ed avversari ma anche contro i propri alleati Nato e partner internazionali. Uno degli aspetti più sorprendenti del discorso di Trump è stata la sua promessa di garantire il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas dopo il suo insediamento, pena lo “scatenamento dell’inferno”.
Durante la conferenza stampa ha anche elogiato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in visita lampo per il delicatissimo dossier sul caso di Cecilia Sala: “sono qui con una donna fantastica, il primo ministro italiano”, ha detto Trump. Poi la bordata alla Ue: “ha davvero preso d’assalto l’Europa”. Una visita che ha subito messo in luce l’ottimo lavoro del nostro PdCM Meloni, che ha ottenuto il sostegno del presidente eletto Trump alla strategia del governo italiano che ha portato all’immediata liberazione della giornalista Cecilia Sala. La giornalista, rientrata ieri pomeriggio a Roma con un volo di Stato, era stata presa in ostaggio dal regime teocratico della Repubblica Islamica qualche giorno dopo l’arresto a Malpensa, il 16 dicembre scorso – su richiesta delle autorità statunitensi – dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, accusato di aver fornito ai Pasdaran iraniani componenti elettronici usati per realizzare un attentato terroristico contro militari Usa in Giordania.
Una nuova postura assertiva del presidente Trump che evidenzia la sua intenzione di riaffermare l’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente, una regione che è già stata centrale nella agenda di politica estera del suo precedente mandato, culminato con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e la firma degli Accordi di Abramo, che hanno segnato un cambiamento significativo nelle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente.
Trump vuole che i Paesi Nato aumentino le spese militari “fino al 5% del Pil”
Il presidente eletto degli Stati Uniti d’America, a Mar-a-Lago è tornato a gamba tesa anche sul tema Nato, dichiarando che gli Stati membri devono aumentare i loro bilanci per la difesa al 5% del loro PIL. “Possono permetterselo tutti, molti non pagano” – ha detto rispondendo alla domanda di un giornalista – “la Germania, per esempio, ha dato meno dell’uno per cento”. “Penso che la quota della Nato debba essere del 5 per cento, non del 2%”. Affermazioni che evidenziano la sua più ampia critica alle organizzazioni ed alle partnership multilaterali. Insistendo sul fatto che molti Stati membri non hanno mai versato il 2% previsto dal Trattato e che siano disponibili ad aumentare le spese per la difesa fino al 5% del loro PIL, Trump mira ad affrontare quello che percepisce come uno squilibrio nella condivisione degli oneri dell’Alleanza. Questa posizione, sebbene controversa, si allinea con la sua visione di Stati Uniti pronti a limitare il loro impegno nella Nato (o addirittura uscirne), per essere più autosufficienti e meno imbrigliati nelle problematiche geopolitiche europee.
Il Canale di Panama: una infrastruttura strategica
Il Canale di Panama, completato nel 1914, è una delle più grandi imprese ingegneristiche del XX secolo e un simbolo dell’ingegnosità americana e della sua influenza geopolitica, oggi minacciata dalla Cina. Il suo valore strategico risiede nella capacità di facilitare il transito delle merci tra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico, riducendo drasticamente i tempi e i costi dell’intero sistema logistico globale. Per gran parte del XX secolo, il canale è stato sotto il controllo degli Stati Uniti, con la presenza militare americana che ne garantiva il funzionamento e la sicurezza. Tuttavia, in base ai trattati Torrijos-Carter del 1977, il controllo del canale fu trasferito a Panama il 31 dicembre 1999, segnando la fine di controverse relazioni tra Stati Uniti e Panama.
L’intenzione di Trump di reclamare il controllo del canale – attraverso la coercizione economica o militare – risponde ad una minaccia emersa nel corso dell’ultimo decennio e soprattutto durante la pandemia da Covid-19, quando le infrastrutture sono divenute sempre più uno strumento geopolitico di influenza delle grandi potenze, per accrescere la loro connettività con gli Stati ritenuti strategici, legandoli a sé dal punto di vista economico e politico attraverso un aumento costante degli investimenti. Emblematico è il caso della Cina, con l’avvio nel 2013 della Belt&Road Initiative, alleato e sostenitore della Federazione Russa nella strategia che vuole sovvertire, anche attraverso l’impiego della forza militare, l’ordine internazionale.
Il canale di Panama rappresenta un’arteria fondamentale per il commercio globale, con oltre 12.000 navi che transitano ogni anno e trasportano circa il 6% del commercio marittimo mondiale. Il canale è governato dall’Autorità del Canale di Panama (ACP), un’agenzia autonoma di diritto panamense, che ha enormemente aumentato i pedaggi per il transito alle navi americane e che gli Stati Uniti accusano di sfavorirne il transito, costringendolo a lunghe e costose attese alla fonda, provocando disruption nella catena della logistica ed aumento dei costi delle merci al mercato statunitense.
Per gli Stati Uniti, che dipendono fortemente dal canale per la spedizione di merci, da e verso l’Asia orientale, la sua importanza strategica non può più essere sottovalutata.
Le ambizioni del presidente eletto Trump sul Canale di Panama devono, quindi, essere comprese nel contesto dei recenti stravolgimenti degli assetti geopolitici e delle dinamiche geoeconomiche globali. La Cina, la seconda economia del mondo e vero avversario strategico degli Stati Uniti, ha investito molto a Panama negli ultimi anni, tra cui il finanziamento della costruzione di un nuovo porto per navi portacontainer e la stipula di numerosi accordi commerciali e tecnologici che sottintendono sempre anche interessi militari cinesi. La crescente presenza dell’influenza cinese a Panama ha fatto scattare diversi allarmi a Washington, che la vedono come parte della più ampia strategia di Pechino per espandere la sua influenza in America Latina. I trattati Torrijos-Carter regolamentano l’accordo internazionale vincolante – sia per gli Usa che per Panama – ponendo fine a decenni di controllo degli Stati Uniti sul canale. Secondo gli Usa, Panama sta violando tale Accordo ma riprendersi con la forza il canale, non solo violerebbe i trattati ma minerebbe la reputazione degli Stati Uniti come sostenitori del diritto internazionale, creando anche un pericoloso precedente per altre nazioni che non rispettano gli obblighi del trattato. Inoltre, una tale mossa sarebbe vista da molti come un atto di neo-imperialismo, che fa rivivere ricordi dolorosi dell’intervento degli Stati Uniti in America Latina nel corso del XX secolo. Gli Stati Uniti hanno una lunga storia e non sempre limpida nella regione, caratterizzata da interventi militari, ingerenze politiche e sfruttamento economico. La proposta di Trump, se perseguita con la coercizione, farebbe riemergere il sentimento anti-americano in America Latina, complicando gli sforzi per costruire relazioni costruttive con gli alleati regionali.
Tuttavia, riprendere il controllo sul canale viene considerato dall’Amministrazione Trump II come una necessità economica, ma soprattutto una contromisura di sicurezza nazionale per arginare la crescente influenza della Cina nella regione. Il progetto della nuova amministrazione Usa di riprendere con la forza, piuttosto che con una strategia diplomatica di soft power, il controllo sul canale incontrerebbe numerosi ostacoli, in primis la sovranità di Panama, l’opposizione della Cina e dei suoi partner internazionali (BRICS), oltre alle ricadute sui partner commerciali alleati ed alle dispute legali e logistiche connesse con la gestione conflittuale di una delle vie d’acqua più trafficate del mondo. Inoltre, la coercizione economica e/o militare a cui allude il presidente eletto Trump – che potenzialmente comporterebbe sanzioni o restrizioni commerciali – avrebbe conseguenze indesiderate anche verso la propria economia. Infine, oltre a spingere ulteriormente Panama nella sfera di influenza della Cina, qualsiasi tentativo in tal senso rischierebbe di avere notevoli ripercussioni diplomatiche a livello internazionale e legittimare altre operazioni simili da parte di Russia e Cina, leggasi Taiwan.
La Groenlandia e la battaglia geopolitica per l’Artico
Il rinnovato interesse di Trump per l’acquisizione della Groenlandia evidenzia la crescente importanza strategica ed economica dell’isola. Mentre l’Artico diventa un punto focale per la competizione globale, la Groenlandia è emersa come un campo di battaglia critico per l’influenza tra le principali potenze, tra cui Stati Uniti, Russia e Cina.
L’isola, un territorio autonomo della Danimarca, ospita vaste risorse naturali non sfruttate, tra cui minerali di terre rare, petrolio e gas naturale. La sua posizione geografica, a cavallo delle principali rotte marittime dell’Artico, ne accresce ulteriormente il valore strategico. Durante la sua presidenza, Trump ha notoriamente lanciato l’idea di acquistare la Groenlandia, una proposta che è stata accolta con ridicolo diffuso e un fermo rifiuto da parte della Danimarca. Nonostante le polemiche, le osservazioni di Trump hanno sottolineato la crescente importanza dell’Artico nella pianificazione strategica degli Stati Uniti. Il cambiamento climatico, che sta rapidamente sciogliendo i ghiacci artici, ha aperto nuove rotte marittime e l’accesso a risorse precedentemente inaccessibili, intensificando la competizione tra le nazioni artiche e non.
L’importanza strategica della regione Artica, prima del 24 febbraio 2022, era principalmente focalizzata sugli sconvolgimenti dovuti al cambiamento del clima e dal conseguente scioglimento dei ghiacciai, che oltre a rappresentare una minaccia ambientale sta aprendo nuove rotte navigabili e opportunità di sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche presenti nel dominio subacqueo artico. Dopo l’invasione Russa dell’Ucraina, le potenze globali hanno incrementato la loro presenza militare nell’Artico, diventato sempre più una frontiera della competizione strategica.
L’Artico, denominato anche Artide, è la regione della Terra che circonda il Polo Nord, si estende per circa 30 milioni di Km2 ed è abitata da oltre quattro milioni di persone. Non avendo un’estensione definita, l’Artico viene convenzionalmente delimitato dalla zona a nord del Circolo Polare Artico, ovvero a latitudini superiori ai 66°33’39” Nord.
Le nazioni che fanno parte della regione artica sono: Canada, Danimarca (con Groenlandia e Isole Fær Øer), Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia, Russia e Stati Uniti.
Il valore geostrategico della regione artica è rappresentato da due principali elementi: le risorse naturali e le rotte navali. I recenti rilevamenti effettuati con le nuove tecnologie fanno stimare che nell’Artico siano presenti il 30% delle riserve di idrocarburi mondiali, una quantità enorme di specie animali e vegetali ancora sconosciute e grandi risorse ittiche utilizzabili per il continuo scioglimento dei ghiacciai provocato dal riscaldamento climatico. Per quanto riguarda lo sviluppo delle rotte navali commerciali, proprio a causa dello scioglimento dei ghiacciai e grazie alle moderne navi rompighiaccio, il circolo polare artico potrà fornire due nuove vie di comunicazione navigabili tutto l’anno, attualmente utilizzabili solo per poche settimane nella stagione estiva. Inoltre, bisogna considerarne l’accezione strategica dal punto di vista militare, nel contesto di guerra ibrida globale in atto.
Il valore strategico della Groenlandia
Per gli Stati Uniti, la Groenlandia rappresenta un cardine della sicurezza economica e della strategia di difesa artica. L’isola ospita la base aerea di Thule, l’installazione militare più settentrionale degli Stati Uniti, che svolge un ruolo fondamentale nella difesa missilistica e nei sistemi di allerta precoce. Mentre la Russia espande la sua presenza militare nell’Artico e la Cina si dichiara uno “stato quasi artico”, gli Stati Uniti hanno cercato di rafforzare la loro posizione nella regione. Le abbondanti risorse naturali della Groenlandia la rendono anche un obiettivo attraente per gli investimenti economici. I minerali delle terre rare, essenziali per la produzione di tecnologie avanzate civili e sistemi di difesa militari, sono particolarmente preziosi. La Cina attualmente domina il mercato globale delle terre rare e garantire l’accesso ai giacimenti della Groenlandia potrebbe ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalle forniture cinesi.
Le ambizioni territoriali americane e le implicazioni di una politica estera assertiva
Nonostante il fascino geografico ed il valore strategico della Groenlandia, un approccio assertivo verso i propri alleati aumenta i rischi e le minacce ibride che già devono fronteggiare le nazioni artiche alleate contro le ambizioni russe e cinesi. In primo luogo, l’autonomia della Groenlandia sotto il Regno di Danimarca le conferisce il diritto all’autodeterminazione. Qualsiasi tentativo di conquistare l’isola richiederebbe il consenso sia della Groenlandia che della Danimarca, una prospettiva che sembra altamente improbabile data la reazione stizzita alle sorprendenti dichiarazioni del presidente eletto Trump. Diplomaticamente, le ambizioni di Trump sulla Groenlandia rischiano di alienare i rapporti con la Danimarca e quelli già pesantemente danneggiati dalle ingerenze del DOGE Elon Musk nelle vicende politiche di alleati chiave europei della Nato, come la Francia, la Germania ed il Regno Unito, oltre che con l’Ue. Il netto rifiuto della Danimarca della proposta ritenuta assurda, ne riflette non solo il legittimo orgoglio nazionale, ma anche le preoccupazioni per il mantenimento della stabilità nella regione artica. La reazione ed i commenti del primo ministro Mette Frederiksen hanno urtato la sensibilità del Tycoon, che ha reagito cancellando l’incontro con la premier danese previsto tra due settimane, incurante del rischio di provocare una crisi diplomatica. Perseguire una politica così controversa potrebbe mettere a dura prova le relazioni con tutte le altre nazioni artiche, complicando gli sforzi per affrontare sfide condivise come il cambiamento climatico e la sicurezza regionale.
I commenti di Trump sul Canale di Panama e sulla Groenlandia sono indicativi del suo approccio assertivo alla politica estera, che dà priorità agli interessi degli Stati Uniti e sfida le norme tradizionali della diplomazia. Queste proposte, sebbene controverse, si allineano con la sua convinzione della necessità di un’azione coraggiosa per contrastare l’ascesa di potenze rivali come Cina e Russia. Allo stesso tempo, queste idee sollevano importanti domande sul ruolo degli Stati Uniti nel XXI° secolo. Mentre l’equilibrio globale del potere cambia, gli Stati Uniti affrontano la sfida di adattarsi a un mondo multipolare mantenendo la loro posizione di leadership. La visione del presidente Trump, se confermata da una revisione della foreign policy della nuova amministrazione – anche se polarizzante, riflette la volontà di stravolgere gli approcci tradizionali alla geopolitica e di adottare strategie non convenzionali per garantire gli interessi americani.
Le ambizioni territoriali di Trump segnalano un brusco cambiamento nella politica estera degli Stati Uniti, da un approccio cooperativo improntato alla deterrenza, verso un approccio più assertivo, transazionale e strategicamente ambiguo.
Dando priorità alle risorse strategiche e sfruttando gli strumenti militari ed economici, la sua visione enfatizza i guadagni tangibili rispetto ai principi della diplomazia occidentale. Questo approccio esalta la base elettorale del movimento MAGA di Donald Trump, fortemente influenzata dalla propaganda diffusa dal suo principale sponsor Elon Musk su X, ed ora anche su tutti gli altri social media che si sono adeguati ai nuovi standard, eliminando i fact-checker indipendenti. Propaganda lo vede interpretare il ruolo di leader forte che “Makes America Great Again” attraverso il ritorno all’uso della forza e al pragmatismo americani.
Le dure dichiarazioni del presidente Donald Trump relativamente all’attuale gestione del Canale di Panama e sul perseguimento degli interessi territoriali in Groenlandia, sono emblematiche del suo approccio alle relazioni internazionali: aggressivo, non convenzionale ed imprevedibile. Tuttavia, questa sua strategia, sebbene soltanto annunciata, di focalizzare la politica estera degli Stati Uniti verso la sicurezza di risorse ed infrastrutture strategiche che ritiene fondamentali per mantenere il dominio americano negli affari globali, non è priva di significative sfide politiche, economiche ed etiche. La visione di foreign policy descritta dal neo eletto inquilino della Casa Bianca sta ulteriormente infiammando il già terremotato ordine mondiale, suscitando un intenso dibattito sulla loro fattibilità e sulle implicazioni più ampie per la diplomazia statunitense, sui rapporti con i partner, sul futuro della Nato e sul diritto internazionale.
Il perseguimento di tali ambizioni dovrà fare i conti con le complessità delle dinamiche regionali e con le percezioni globali della leadership degli Stati Uniti. Sebbene il Canale di Panama e la Groenlandia rappresentino opportunità strategiche per gli Stati Uniti, il raggiungimento di questi obiettivi richiederà di bilanciare in un delicato equilibrio ambizione e soft power, assicurando che la crescita economica e la sicurezza degli Stati Uniti non vadano a scapito di quelle Paesi alleati, della stabilità dei partenariati e soprattutto che non alimentino ulteriori conflitti.
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