Maduro giura per la terza volta. «Arrestata la leader di destra Machado», sdegno mondiale ma è una fake news

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Inizia nel modo più turbolento possibile il terzo mandato di Nicolás Maduro, che oggi presterà giuramento dinanzi all’Assemblea nazionale tra dubbi pesantissimi sulla sua legittimità: ad agitare gli animi è stata soprattutto la notizia dell’arresto e dell’immediato rilascio della leader di estrema destra María Corina Machado, la quale – hanno detto fonti del suo stesso partito – sarebbe stata fermata ieri da agenti delle forze di sicurezza al termine di un corteo anti-governativo a Caracas, dove l’oligarca golpista era ricomparsa dopo 133 giorni trascorsi in clandestinità. Il governo ha smentito l’arresto, Machado è riapparsa in un video dopo circa un’ora, parla di fake news anche il presidente della Colombia Gustavo Petro.  Ma nel frattempo mezzo mondo aveva tuonato contro Maduro chiedendo la liberazione della leader anti-chavista.

Non è tuttavia solo l’estrema destra ad andare incontro alla repressione: la stessa sorte è toccata anche a quell’opposizione che ben difficilmente potrebbe passare per filoimperialista o filofascista, e che anzi in qualche caso si richiama esplicitamente all’eredità di Hugo Chávez.

Grande scalpore ha suscitato martedì l’arresto, tra diversi altri, dell’ex candidato presidenziale Enrique Márquez, un tempo oppositore di Chávez ma oggi sostenuto dal Partito comunista e diventato, nella sua battaglia a favore della pubblicazione dei documenti elettorali, il punto di riferimento della dissidenza di sinistra (la quale si era già vista respingere ogni richiesta di candidatura presidenziale).

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Ad accusare Márquez è il potente ministro degli Interni, della Giustizia e della Pace Diosdado Cabello, il quale ha denunciato il suo presunto coinvolgimento in un piano golpista, mostrando un documento, che sarebbe stato trovato nel suo computer, in appoggio all’insediamento, in una sede diplomatica venezuelana all’estero, di Edmundo González Urrutia, il candidato di estrema destra ritenuto dall’opposizione il vero vincitore delle elezioni.

Ugualmente coinvolto nel piano sarebbe, secondo Cabello, anche il difensore dei diritti umani e direttore dell’ong Espacio Público Carlos Correa, portato via sempre martedì da uomini vestiti di nero e con un passamontagna, a favore del quale sono scese in campo anche Amnesty International, la Commissione Interamericana per i diritti umani e Human Rights Watch. 

Ed è stato proprio l’arresto di Márquez e di Correa, oltre che la mancata pubblicazione dei risultati elettorali, a indurre Gustavo Petro a disertare l’insediamento di Maduro, inviando al suo posto il proprio ambasciatore a Caracas: la stessa scelta adottata da Lula e Sheinbaum.

Agenti del servizio di intelligence venezuelano, armati e incappucciati, si sono invece appostati di fronte al portone della casa dell’ex sindaco della capitale ai tempi di Chávez Juan Barreto, che oggi milita nel partito Centrados di Márquez: «un’azione illegale e immotivata, ha denunciato Barreto, definendosi un «uomo di pace» impegnato a favore «dei diritti umani e sociali dei lavoratori e della libertà degli arrestati, sempre nel rispetto della Costituzione».  

E contro il «tremendo dispiegamento di polizia e parapolizia» degli ultimi giorni si è scagliato anche il rappresentante del Partito comunista Pedro Eusse, secondo cui «ora più che mai è necessario rivendicare il diritto alla protesta del popolo venezuelano, sia contro la negazione dei diritti come quello a un salario decente, sia contro la violazione della Costituzione», tanto più di fronte all’annuncio di un’imminente riforma costituzionale da parte di Maduro.

Il dibattito, tra le forze di sinistra, è del resto più acceso che mai. Se una parte importante della sinistra venezuelana e internazionale continua a sostenere il governo Maduro come una roccaforte contro il fascismo, sorvolando sull’estrema opacità delle ultime elezioni presidenziali – le prove della sua presunta vittoria non sono mai state presentate -, un’altra parte non è invece disposta a giustificare il ricorso a mezzi non democratici (sia pure quelli di una lacunosa democrazia rappresentativa), denunciando il rischio che, utilizzando le stesse armi della destra, si finisca proprio per superare la linea di demarcazione tra questa e la sinistra. «È chiaro che noi rivoluzionari puntiamo a un ampliamento della democrazia diretta, ma in nessun caso possiamo permettere che vengano cancellate le conquiste democratiche ottenute dalla classe lavoratrice e dal popolo», evidenzia il sociologo venezuelano Luís Bonilla-Molina. Senza con ciò negare, è ovvio, la «tragedia» che comporterebbe l’ascesa al potere dell’estrema destra rappresentata da Edmundo González, e dietro di lui, da Machado.

E proprio a sostegno dell’ex candidato presidenziale delle destre, riscossosi dal suo esilio in Spagna per intraprendere un tour in vari paesi (con tanto di riunione con Biden), è sceso in campo il meglio della destra internazionale: gli spagnoli Santiago Abascal, José María Aznar e Mariano Rajoy, i messicani Felipe Calderón e Vicente Fox, il boliviano Jorge Quiroga, il colombiano Andrés Pastrana e il paraguayano Mario Abdo Benítez, solo per fare alcuni nomi. A minacciare il gruppo di ex presidenti schierati con González ci ha pensato però Cabello: se cercheranno di entrare nel paese, ha detto, «saranno arrestati e consegnati alla giustizia».



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