RIFORMA GIUSTIZIA/ Tra Paesi sicuri e carriere, la vera partita si chiama responsabilità dei magistrati

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In attesa che si definisca nel corso dei prossimi mesi da parte della Corte di Giustizia europea la rilevante questione legata a chi spetti di poter individuare i Paesi sicuri ai fini della gestione dei migranti, l’anno appena iniziato offre non pochi spunti di interesse sul fronte della giustizia.

Alla vigilia di Capodanno, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha stabilito, in merito ai ricorsi presentati dal governo contro le prime mancate convalide del trattenimento di migranti in Albania emesse dalla sezione immigrazione del tribunale di Roma il 18 ottobre scorso, la sospensione di ogni provvedimento in attesa della pronuncia del giudice europeo cui ha demandato la decisione finale, affermando che sulla definizione di Paesi sicuri “il giudice della convalida, garante, nell’esame del singolo caso, dell’effettività del diritto fondamentale alla libertà personale, non può sostituirsi nella valutazione che spetta, in generale, soltanto al Ministro degli affari esteri e agli altri Ministri che intervengono in sede di concerto”.


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Accogliendo la richiesta della Procura generale in tema di definizione di Paesi sicuri, si è così proceduto ad emettere una ordinanza interlocutoria in cui si dà tuttavia non poco rilievo alla circostanza che “al dialogo tra giurisdizioni la Corte di Cassazione partecipa offrendo, nello spirito di leale cooperazione la propria ipotesi di lavoro, senza tuttavia tradurla né in decisione del ricorso né in principio di diritto suscettibile di orientare le future applicazioni”. Decisione francamente corretta, sebbene dal vago eco “donabbondiano” o “cerchiobbottista”, in cui in ogni caso si afferma che, se non spetta al giudice ordinario formulare l’elenco dei Paesi sicuri, resta fermo che il singolo giudice ha il potere di disapplicare il decreto del governo “caso per caso”, essendo egli “chiamato a riscontrare la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo Paese di origine come sicuro”. Ciò in quanto il giudice resta il garante della effettività del diritto fondamentale alla libertà personale, sicché egli non si sostituisce al governo, ma è pur sempre chiamato a riscontrare nell’ambito del suo potere istituzionale la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo Paese di origine come sicuro, rappresentando tale designazione uno dei presupposti giustificativi della misura di trattenimento.



Venendo invece ai dossier sul tavolo del Parlamento e del governo alla ripresa dei lavori dopo le festività natalizie, il menù appare quanto mai ricco. Lo stallo sull’elezione di quattro giudici della Corte Costituzionale rappresenta una portata indigesta che andrà tuttavia digerita in qualche modo. L’accordo sul metodo sembra essere stato invece raggiunto, ma sui nomi si registra l’impasse. L’intesa prevede che due giudici spettino al centrodestra (FdI e FI), uno alle opposizioni (Pd) e infine un “tecnico”, da individuare insieme. A oggi manca ancora la data della nuova convocazione del Parlamento in seduta comune, sicché è molto probabile che sarà una Corte Costituzionale a ranghi ridotti a esprimersi sui referendum.



Poi incombono le diverse riforme–bandiera: la separazione delle carriere dei magistrati, il premierato e soprattutto il nodo autonomia; dopo che la Consulta ha bocciato alcune parti della riforma, maggioranza e governo stanno valutando il da farsi, con la Lega che spinge per procedere con i negoziati con le Regioni, mentre FI e FdI sono per far tornare la riforma in Parlamento. Come noto, la presidente del Consiglio Meloni, chiudendo la festa di Atreju, ha annunciato che “il 2025 sarà l’anno delle riforme che spaventano molti”. Ebbene, l’Aula di Montecitorio ripartirà proprio dalla separazione delle carriere dei magistrati, con il voto sulle questioni pregiudiziali presentate dalle opposizioni, dopo che a dicembre si è svolta la discussione generale. L’obiettivo di governo e maggioranza resta quello di procedere spediti verso il primo via libera che, nelle intenzioni, dovrebbe arrivare già a fine mese.

Il Senato sarà impegnato con il decreto Giustizia, varato dal governo a fine novembre e dal quale sono state stralciate all’ultimo le norme sul rafforzamento dei poteri della Procura nazionale antimafia sui reati in materia di cybersicurezza e l’introduzione di un illecito disciplinare per i magistrati. Tra le novità c’è il rafforzamento degli strumenti a tutela delle vittime di violenza di genere e di atti persecutori. In ballo ci sono poi temi caldi come quello delle intercettazioni, della prescrizione e della custodia cautelare. La riforma della prescrizione giace al Senato e potrebbe riprendere l’iter quest’inverno, mentre sulla custodia cautelare al momento tutto tace, dopo l’annuncio di modifiche fatto dal ministro Nordio quest’estate che ha però riscontrato perplessità anche all’interno della coalizione di governo.

Il fronte più caldo resta quello della separazione delle carriere. Le toghe, in disaccordo fra loro su molti aspetti, su questo argomento si sono ricompattate e si mostrano sul piede di guerra. Il plenum di Palazzo Bachelet, infatti, ha bocciato la riforma. L’organo di autogoverno si è confrontato sulla relazione, depositata già in Sesta commissione, che argomenta per quasi sessanta pagine il suo parere fortemente contrario, per usare un eufemismo. L’approvazione del documento era scontata poiché, dopo l’unità mostrata dai giudici nell’Assemblea dell’Anm di fine anno, il parere reca in calce le firme di tutte le componenti della magistratura: dalla corrente di destra Mi all’esponente di Area Antonello Cosentino, a quello di Unicost Roberto D’Auria insieme a Roberto Fontana, l’indipendente vicino alla sinistra oltre quella del laico del Pd. L’evocazione più suggestiva fra quelle formulate è il rischio della dipendenza dei magistrati della pubblica accusa dal potere politico, cui si affianca quello della formazione di un “corpo autonomo di funzionari-pm” che guida la polizia giudiziaria ma è “sottratto a qualsiasi forma di confronto e controllo”, un unicum insomma mai visto nei sistemi democratici, si è scritto.

Si legge inoltre che il disegno riformatore della destra al governo, “pur lasciando formalmente intatti” presìdi e garanzie, nel concreto sviluppo della riforma “non elimina il rischio di un affievolimento dell’indipendenza del Pm rispetto agli altri poteri dello Stato”, ribadendo come, “secondo alcuni, la separazione delle carriere unitamente alla contestuale istituzione di un autonomo organo di autogoverno composto esclusivamente da magistrati requirenti, con membri laici, porterebbe alla separazione di un corpo di funzionari pubblici, deputato alla direzione della polizia giudiziaria, essenzialmente autoreferenziale; un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro”, citando il costituzionalista Alessandro Pizzorusso, secondo cui la separazione realizzerebbe “Il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea”. Infine, la relazione ricorda, ancora una volta, il dato che i passaggi dall’una all’altra funzione riguardano percentuali largamente inferiori all’1% dell’organico in servizio e sono condizionati da “limitazioni di natura funzionale e territoriale” tali da non poter comportare, “neanche sotto il profilo dell’apparenza, rischi di ricadute negative in termini di imparzialità e terzietà”.

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Certo, è stata presentata un’altra relazione, invece, favorevole alla separazione delle carriere che porta la firma del laico di FdI Felice Giuffré, che offre, evidentemente, una prospettiva interpretativa diametralmente opposta. Giova inoltre ricordare come il progetto di riforma preveda un nuovo metodo di elezione di entrambi i futuri Csm, ipotizzando che essi siano composti interamente da membri selezionati tramite sorteggio: sia i cosiddetti “laici“ che i “togati“. Lo scopo è ovviamente quello di prosciugare la linfa che alimenta da sempre le tanto vituperate correnti. Ciò detto, il timore dell’assoggettamento del pm all’esecutivo pare francamente strumentale. L’introduzione in Costituzione dell’autonomo Csm scongiura colpi di mano di future maggioranze. Le garanzie restano le stesse di adesso. Molto più concreto è invece il pericolo che il pm assuma sempre di più le fattezze di un super poliziotto.

La vera partita, ancor di più in considerazione di quanto appena detto, resta quella sulla responsabilità. Il sistema disciplinare deve essere rivisto e reso efficace. Ove tale leva dovesse finalmente divenire concretamente esercitabile, ogni eventuale eccesso o abuso sarebbe sanzionato così da abbattere considerevolmente la frequente reiterazione.

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