ecco la strategia del governo

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Una partita a scacchi tra Roma, Teheran e Washington, l’aveva definita il padre di Cecilia Sala. Cominciata con il gambetto iraniano, l’arresto della giornalista del Foglio e Chora Media. Ma conclusa, se non con un “matto” da parte dell’Italia, comunque con un successo diplomatico: la liberazione dopo 21 giorni della cronista romana, l’assenza di reazioni rumorose da Washington rispetto alla mancata estradizione di Mohammad Abedini. Un risultato in cui era difficile sperare, fino a due settimane fa, quando quel blitz di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago ha permesso agli ultimi pezzi del puzzle di incastrarsi al loro posto.

Perché se la gestione del dossier Abedini – l’ingegnere svizzero-iraniano che gli Usa accusavano di aver fornito all’Iran componenti per i droni che hanno ucciso tre soldati statunitensi – è rimasta formalmente sempre in capo ai magistrati milanesi e al ministero della Giustizia, il cui titolare Carlo Nordio era l’unico legittimato dalla legge italiana a negare l’estradizione, le mosse da compiere sono state attentamente soppesate tra via Arenula, Farnesina e Palazzo Chigi. Con la regia affidata ad Alfredo Mantovano, nella doppia veste di autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e di plenipotenziario della premier.

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L’ACCELERAZIONE

A chi si è occupato del dossier, l’urgenza di accelerare è apparsa subito chiara, nelle ultime ore. Muoversi in fretta, prima che la vicenda si rendesse ancor più complicata. La data cerchiata in rosso sul calendario era quella di dopodomani. Quando, se non fosse intervenuto Nordio, i giudici milanesi avrebbero dovuto decidere se concedere o no i domiciliari all’iraniano detenuto nel carcere di Opera.

Ed ecco il rischio che si è palesato ai piani alti dell’esecutivo: un eventuale no alla scarcerazione da parte dei giudici sarebbe potuto apparire come una conferma della fondatezza delle accuse americane. Quelle stesse accuse per le quali Nordio non ha invece ravvisato «nessun elemento addotto a fondamento». Nessuna prova, se non l’attività di Abedini di produzione e commercio con l’Iran di strumenti tecnologici con «potenziali, ma non esclusive, applicazioni militari».

Per questo tra via Arenula e Chigi si è deciso di stringere i tempi. Senza aspettare che a carico di Abedini, su cui la procura di Milano ha aperto un fascicolo “modello 45” (ossia senza indagati né ipotesi di reato), i pm circostanziassero delle accuse, magari pesanti. Il trolley dell’ingegnere, con dentro computer, telefoni, pen drive e schede elettoroniche, è rimasto a lungo in mano alla procura guidata da Marcello Viola. Se da lì fosse saltato fuori qualcosa di compromettente, tale da far formulare ipotesi di reato riconosciute anche dal codice penale italiano (a differenza di uno dei capi di imputazione contestati dagli Usa), firmare la revoca dell’arresto sarebbe stato molto più difficile, per Nordio. Che avrebbe dovuto giustificare il no all’estradizione sulla base di una scelta politica legittima, sì, ma che poteva rischiare di apparire come uno scontro con i pm. Giocando d’anticipo, invece, si è potuto far leva su una motivazione in punta di diritto.

CAMBIO DI PASSO

È così che è maturato il cambio di strategia. Che già nei giorni scorsi aveva imposto un cambiamento di comunicazione ai membri del governo. La liberazione di Abedini non è – e non doveva essere presentata – come la contropartita concessa al regime degli Ayatollah in cambio della scarcerazione di Cecilia Sala. Ma una scelta dettata dal diritto italiano e dal principio garantista a cui il nostro ordinamento si ispira. E non è un caso se proprio di «garantismo» parla il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, tra le poche voci della maggioranza a commentare il rilascio dell’«uomo dei droni».

Nelle scorse settimane l’esecutivo ha approfondito la questione con giuristi ed esperti di diritto internazionale. E la conclusione a cui si è arrivati è che c’erano solidi appigli per giustificare una mancata estradizione con l’alleato americano. Una copertura giuridica che può sembrare dettaglio, in questa vicenda. Ma non lo è. Perché il governo, d’accordo con la Casa Bianca e con il presidente eletto Usa, aveva tutta l’intenzione di non consegnare al mondo l’immagine di uno scambio di prigionieri, che avrebbe fatto pensare a un cedimento di fronte al «ricatto» di Teheran. Ecco spiegate le parole di Antonio Tajani sulle due partite da considerare vicende «separate», nonostante le prime ammissioni in senso contrario dell’ambasciata iraniana. Ed ecco il perché della scarcerazione di Abedini arrivata soltanto alcuni giorni dopo il rientro di Sala. Con la convinzione, se davvero come tutto fa presupporre non ci saranno irrigidimenti da parte di Washington, di aver messo a segno un capolavoro diplomatico. Uno scacco matto, o quasi.

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