Una vendetta tibetana: un giallo sull’Himalaya di Bernard Grandjean

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Siamo giunti alla terza avventura della serie dei “Delitti in Himalaya”, che lo scrittore francese Bernard Grandjean ha scritto per la casa editrice Obarra O, nella collana “In Asia-Gialli”. Il romanzo in questo caso si chiama “Una vendetta tibetana”, per la traduzione di Andrea Da Glossari. I personaggi sono gli stessi che si sono resi protagonisti delle altre puntate della serie, anche se, come è ovvio che sia, questo capitolo della saga si legge tranquillamente anche se non si conoscono i due precedenti.

Un delitto efferato è avvenuto a Lhasa, capitale del Tibet. Si sospetta che dietro questa uccisione si celi un complesso furto di opere d’arte tibetane che vengono sottratte ai templi nei quali sono custodite e vendute da trafficanti sul mercato internazionale clandestino. I servizi segreti cinesi incaricano dell’indagine il capitano Zhang Liu, che era già stato protagonista dei romanzi precedenti, nei quali aveva operato per conto delle autorità cinesi per interrompere la fuga di tibetani verso l’India. E proprio in India, a Calcutta, dove si reca perché i fili della sua indagine lo portano a inseguire un trafficante cinese che ritrova Betty Bloch, ora insegnante all’Università di Calcutta e da subito pronta ad aiutare Liu nelle indagini.

Il solito gruppo di personaggi si muove questa volta in un contesto geografico più allargato. Si passa infatti dal Tibet, all’India e alla Cina, perché questa avventura contiene anche un po’ di intrigo spionistico, di rocamboleschi inseguimenti alla 007, sempre con il sottile fondo di ironia che contraddistingue i romanzi di Grandjean. Devo dire che, da questo punto di vista, l’intreccio è forse il meglio riuscito tra quelli dei suoi romanzi, mentre Betty e Liu, che sono gli indiscutibili protagonisti della vicenda sono messi a fuoco forse ancora meglio che nei precedenti episodi.

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Si tratta anche, senza dubbio, del romanzo più “politico” dell’autore. La critica al regime cinese è feroce, seppure talvolta un po’ addolcita dal registro leggero e mai fino in fondo veramente drammatico. Il punto di vista dei tibetani è sicuramente quello preferito, la burocrazia cinese in più circostanze quasi sbeffeggiata, mentre in diverse situazioni risaltano ottusità e corruzione come cifre dominanti della Repubblica Popolare. Anche se Liu, in virtù della sua umanità, quasi ci vuole comunicare che al di là di un sistema spietato, i singoli individui, con la loro storia, la loro cultura e la loro educazione, sono migliori di come il regime vorrebbe che fossero.

Il punto di vista scelto per mostrare la durezza del regime è quello di considerare l’atteggiamento che i cinesi hanno avuto ei confronti dell’arte tibetana. E se nei precedenti episodi c’era più attenzione sul tema religioso, in questo romanzo si mette maggiormente l’attenzione sul vero e proprio saccheggio che templi e altri edifici hanno subito a partire dalla Rivoluzione Culturale. Anzi, è proprio in quegli anni che maturano gli avvenimenti che poi dovranno essere vendicati ai giorni nostri. Anche la politica di “assimilazione” non viene risparmiata, laddove si vorrebbe artificiosamente creare una cultura e un’arte sino-tibetana, anzi si vorrebbe goffamente ricondurre lo sviluppo artistico, creativo e religioso del Tibet a una presunta mitica origine cinese.

Non mancano, tra le righe, le critiche a un occidente indifferente o, peggio, scaltro e profittatore, che non disdegna l’acquisto di opere d’arte che sa benissimo essere state trafugate. E se la furbizia occidentale può anche servire a scardinare i comportamenti dei trafficanti grazie a un’analisi profonda e intelligente della situazione, spesso essa viene usata a un fine molto meno nobile, laddove per puro diletto o malinteso senso estetico, si accaparra quanto depredato, rendendosi complice di fatto dei saccheggi.

Insomma, come al solito Grandjean, con il suo stile leggero e quasi divertente, scrive un’altra pagina in difesa dei valori e della cultura tibetana. Il libro scorre veloce, anche in virtù di una lunghezza contenuta ed è sicuramente un bel modo per riflettere in modo quasi scanzonato di cose tremendamente serie, che forse troppo spesso nei nostri paesi vengono colpevolmente dimenticate.

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Articolo protocollato da Giuliano Muzio

Sono un fisico nato nel 1968 che lavora in un centro di ricerca. Fin da piccolo lettore compulsivo di tante cose, con una passione particolare per il giallo, il noir e il poliziesco, che vedo anche al cinema e in tv in serie e film. Quando non lavoro e non leggo mi piace giocare a scacchi e fare attività sportiva. Quando l’età me lo permetteva giocavo a pallanuoto, ora nuoto e cammino in montagna. Vizio più difficile da estirpare: la buona cucina e il buon vino. Sogno nel cassetto un po’ egoista: trasmettere ai figli le mie passioni.

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Giuliano Muzio ha scritto 149 articoli:

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