A Complete Unknown con Timothée Chalamet, la recensione del film su Bob Dylan

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Ah, il biopic musicale: un genere che spesso procede con il pilota automatico, offrendo ritratti prevedibili di vita e carriera, interrotti da reinterpretazioni di brani che, diciamolo, sarebbe meglio ascoltare nella loro versione originale. Negli anni, alcuni registi hanno provato a scuotere questo formato ingessato, con risultati a volte brillanti. Il caso più noto è probabilmente quello di Todd Haynes, che nel 2007 con I’m Not There ha catturato lo spirito di Bob Dylan in un modo così surreale e frammentato da risultare quasi intangibile. Ma era inevitabile che, prima o poi, si tornasse a un approccio più tradizionale e accessibile per raccontare l’artista che ha plasmato un’intera generazione. Ed eccoci qui: 17 anni dopo, arriva A Complete Unknown, un’immersione negli esordi di Dylan, firmata da James Mangold, già autore del convenzionale Walk the Line, dedicato a Johnny Cash. Uffa!

A Complete Unknown (in uscita in Italia il 23 gennaio, ndr) è un’opera che, contro ogni aspettativa, si rivela tutto fuorché statica e prevedibile. Anche lo spettatore più scettico potrebbe trovarsi trascinato dalla sua incantevole combinazione di riflessione pacata e autentica meraviglia. La narrazione segue solo vagamente una trama: un giovane Bob Dylan lascia il Minnesota per approdare a New York, dove finisce sotto l’ala protettiva di Pete Seeger (un Edward Norton impeccabile, dolce e misurato). Da qui prende il via un percorso che lo porterà a rivoluzionare il folk, traghettandolo verso un mainstream tutt’altro che convenzionale. Ma A Complete Unknown è, prima di tutto, un film sulla musica, un mosaico di performance che si susseguono nei club newyorkesi, mentre il pubblico – sia quello sullo schermo che quello in sala – osserva, rapito. Non ci svela nulla di radicalmente nuovo su una figura già ampiamente analizzata, ma come il più riuscito dei biopic – in questo caso ricordando vagamente I’m Still There – cattura con rara efficacia l’essenza dell’artista, pur facendolo in modo completamente diverso.

Dylan ha il volto di Timothée Chalamet, giovane star del momento, in una scelta di casting che si dimostra una mossa brillante. Chalamet incarna con naturalezza quel fascino esile e quasi etereo che ha caratterizzato il primo Dylan, ma arricchisce il ritratto con pennellate di arroganza altezzosa, sprazzi di temperamento imprevedibile e un distacco spesso crudele verso chi gli sta accanto. Certo, la figura dell’artista tormentato e distante non è nuova al cinema, ma Chalamet riesce a conferirle freschezza. Guardarlo è un’esperienza ambivalente: provoca affetto ma anche un senso di perdita, quella sensazione che provano i personaggi attorno a lui, mentre Dylan si allontana nelle nebbie solitarie del talento e della fama.

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L’interpretazione raggiunge il culmine nelle scene musicali. Chalamet, insieme al regista James Mangold, ha lavorato per anni affinando le sue performance, che oscillano tra una fedele imitazione e un’interpretazione personale. Il risultato è straordinario. Classici come A Hard Rain’s a-Gonna Fall e Like a Rolling Stone emergono in tutta la loro potenza, non solo come nostalgici richiami, ma come scoperte fresche e palpitanti. Il film riesce a evocare, con un pizzico di magia, quello che doveva essere assistere per la prima volta a un’esibizione di Dylan in un club del Greenwich Village, restando sbalorditi di fronte al suo talento disarmante.

Nonostante il suo tema monumentale, A Complete Unknown è un film sorprendentemente sobrio e delicato. Si muove con grazia attraverso i primi anni ’60, restituendo una New York splendidamente ricostruita, vibrante e vivida. Non ci sono sfoghi melodrammatici o stanze d’albergo distrutte; la tensione si limita alle turbolenze sentimentali che Dylan provoca lungo il suo cammino. Da un lato, c’è un personaggio ispirato a una delle sue prime fidanzate, interpretato da Elle Fanning, dall’altro Joan Baez, resa con struggente autenticità (anche nel canto) da Monica Barbaro. Anche i conflitti restano però misurati: donne che si allontanano con dolore e rassegnazione, lasciando Dylan inseguire la sua grandezza solitaria, proprio come fa Seeger e come fanno tutti gli altri.



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