I membri dell’Unione europea sono impegnati nella conservazione della natura. Le tappe fondamentali di questa cooperazione sono state l’emanazione nel 1979 della direttiva “Uccelli” per la conservazione delle specie avifaunistiche selvatiche e nel 1992 della direttiva “Habitat” per la conservazione delle specie e degli habitat terrestri e marini.
Le due direttive hanno consentito la creazione di una rete di oltre 27.000 aree protette, che coprono circa un quinto della superficie dell’Ue e un decimo dei suoi mari. La direttiva “Uccelli” protegge oltre 500 specie aviarie selvatiche, quella “Habitat” oltre mille specie animali e vegetali e oltre 200 tipi di habitat.
Eppure, nonostante i tanti risultati positivi raggiunti, questa rete di aree protette non è stata sufficiente ad arrestare e invertire la drammatica tendenza verso il declino delle specie e degli habitat.
Lo dimostrano alcuni rapporti di valutazione fondamentali come il rapporto pubblicato nel 2020 sullo stato della natura nell’Ue dell’Agenzia europea dell’ambiente o il rapporto di valutazione della piattaforma intergovernativa di politica scientifica sulla biodiversità e i servizi ecosistemici (Ipbes). Questi studi e altri pubblicati più di recente dimostrano che gli ecosistemi europei sono sottoposti a una pressione crescente, soprattutto a causa delle modalità con cui il suolo e il territorio vengono usati e delle dinamiche di trasformazione di uso del territorio e in particolare dell’artificializzazione. Altre pressioni derivano dal cambiamento climatico, dall’inquinamento chimico (da nutrienti dovuto all’uso eccessivo di fertilizzanti e input chimici).
Uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente del 2020 ha rivelato che solo il 15% degli habitat ha uno stato di conservazione “favorevole” sul territorio europeo, mentre l’81% in totale ha uno stato di conservazione “inadeguato” (45%) o “cattivo” (36%).
Di fronte a questo scenario, a giugno 2020 la Commissione europea ha emanato la Strategia Ue per la biodiversità per il 2030. Queste è stata seguita, nel 2022, dalla prima bozza del Regolamento Ue per il ripristino della natura, per tradurre in impegni e obiettivi giuridicamente vincolanti i principi fondamentali per la protezione e il ripristino non solo all’interno, ma anche all’esterno delle aree protette.
Gli obiettivi
Il 17 giugno 2024 – dopo due anni di strenui negoziati e significativi compromessi a causa delle tensioni relative alle politiche ambientali, in particolare per quelle relative all’agricoltura – il Regolamento Ue per il ripristino della natura è stato approvato e il 18 agosto 2024 è entrato ufficialmente in vigore.
L’obiettivo numerico principale del Regolamento è di avviare, entro il 2030, attività di ripristino dello stato di salute “favorevole” di almeno il 30% degli habitat terrestri, costieri, delle acque interne e marine, che attualmente versano in uno stato di conservazione “cattivo” o “inadeguato”. Questa percentuale dovrà raggiungere il 60% entro il 2040 e il 90% entro il 2050.
I Paesi dovranno poi impegnarsi affinché le aree ripristinate non tornino a deteriorarsi in modo significativo in futuro.
Tra gli altri obiettivi figurano anche gli impegni di: garantire che entro il 2030 non vi sia alcuna perdita netta né della superficie nazionale totale degli spazi verdi urbani né della copertura arborea all’interno delle città e che 2031 in poi ci sia una tendenza positiva dell’estensione delle aree verdi e della copertura arborea nelle città; ripristinare almeno 25.000 km di fiumi in tutta l’Ue, con lo scopo di trasformarli in corsi d’acqua a scorrimento libero; piantare almeno tre miliardi di alberi su tutto il territorio Ue; aumentare la diversità delle specie impollinatrici e arrestare declino degli impollinatori entro il 2030 e in seguito invertirne la tendenza.
Inoltre, per migliorare la biodiversità negli habitat agricoli e forestali, i Paesi Ue dovranno registrare: progressi su abbondanza di specie e popolazioni di uccelli e farfalle tipiche dei prati e dei pascoli; aumenti della percentuale delle superfici agricola con elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità (siepi di piante e arbusti, filari di alberi, zone umide, i muretti in pietra…) e della sostanza organica nei terreni coltivati; progressi su almeno sei dei sette seguenti indicatori (legno morto in piedi, legno morto a terra, percentuale di foreste con struttura disetanea, connettività forestale, carbon stock, percentuale di foreste dominate da specie arboree native, diversità di specie arboree). Il Regolamento contiene una condizione per cui i Paesi Ue non sono obbligati a utilizzare i fondi del fondo agricolo dell’Ue per proteggere la natura, una sorta di “freno di emergenza”, che in circostanze eccezionali consentirà di congelare gli obiettivi relativi agli ecosistemi agricoli, qualora per raggiungerli si riduca la superficie coltivata al punto da compromettere la produzione alimentare e renderla inadeguata ai consumi.
Concretamente ogni Stato membro dell’Ue dovrà presentare alla Commissione Europea, entro il 1° settembre del 2026, una propria bozza di Piano Nazionale per il ripristino della natura.
Ogni Piano dovrà indicare in che modo e con quali strumenti, soprattutto quelli finanziari, gli Stati membri vorranno raggiungere gli obiettivi e gli obblighi posti dal Regolamento. Nel Piano, i Paesi dovranno specificare gli habitat cui dare priorità negli interventi di ripristino, anche se il Regolamento precisa che fino al 2030 la priorità dovrà essere data agli habitat dei siti della rete Natura 2000 e quelli con il maggior potenziale di “sequestro” di carbonio e di riduzione dell’impatto dei disastri naturali e degli eventi meteo-climatici estremi. Con l’adozione del Regolamento per il Ripristino della natura, l’Italia e gli altri 26 Stati membri hanno ora una legislazione per ripristinare la natura. Questa richiede sforzi non indifferenti, non solo finanziari, per la sua attuazione. Ma, una volta implementata porterà numerosi benefici per la natura e per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici in tutta l’Ue. Il ripristino degli habitat naturali e semi-naturali, come quelli agricoli, è essenziale per salvaguardare la capacità degli ecosistemi di immagazzinare e sequestrare il carbonio, riducendo al contempo le emissioni terrestri e migliorando la resilienza a inondazioni, siccità, ondate di calore estremo ed erosione.
Vantaggi per i privati
Il Regolamento fornirà inoltre vantaggi e opportunità per i proprietari terrieri e gli imprenditori agricoli che implementano misure di ripristino, offrendo un framework per supportare i loro sforzi e compensarli finanziariamente. Ad esempio, per gli agricoltori delle regioni con aree estese di terreni agricoli di alto valore naturalistico, con habitat di prateria di interesse conservazionistico europeo, che faticano per restare a galla economicamente, il Regolamento richiederà ai governi di indirizzare meglio il sostegno sia per gli investimenti di ripristino sia per favorire il mantenimento di un tipo di gestione rispettosa della natura. Una delle principali critiche al Regolamento da parte delle lobby agricole è che minaccerebbe la sicurezza alimentare dell’Ue. Viceversa, è evidente che la natura è essenziale per fornire quei servizi agricoli – come la fertilità naturale del suolo, la fornitura di acqua e l’impollinazione delle colture – c he sostengono la sicurezza alimentare.
La legge richiede azioni per accrescere lo stato di quattro indicatori dello stato della biodiversità sui terreni agricoli, tre dei quali fanno già parte del quadro delle performance dei piani strategici della Pac e per i quali sono già state predisposte misure all’interno della Pac. Inoltre, il Regolamento offre opportunità alle aziende che potrebbero voler investire nel ripristino dei servizi ecosistemici da cui dipendono, per mitigare i rischi di perdita di biodiversità a causa delle loro attività.
Il ripristino della natura può creare opportunità per le aziende di sviluppare servizi e prodotti a supporto del ripristino. Il ripristino apporta inoltre benefici alle aziende locali, mobilita i dipendenti locali e promuove il dinamismo economico e l’occupazione nelle aree rurali, tutti fattori che possono avvantaggiare le aziende che investono.
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