Il Sole allo Zenit #33: Various big fires in L.A.

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Ed Ruscha, Burning Gas Station, 1965-1966, olio su tela, 52,1×99,1 cm
Prima di andarci, finalmente, una decina di anni fa, per poi tornarci in altre occasioni, L.A. l’avevo in parte “conosciuta” con una voce che così la presentava: “La chiamavano Los Angeles, la città degli angeli. A me non sembrava che il nome le si addicesse molto, anche se devo ammettere che c’era parecchia gente simpatica. Certo, non ho mai visto Londra. E non sono mai stato in Francia. E non ho neanche mai visto la regina in mutande, come dicono alcuni. Però posso dirvi una cosa: dopo aver visto Los Angeles e aver vissuto la storia che sto per raccontarvi, beh, penso d’aver visto quanto di più stupefacente si possa vedere in tutti quegli altri posti, e in tutto il mondo”.

Era l’introduzione del Grande Lebowski, dei fratelli Coen, che raccontava le vicende del Drugo in accappatoio mentre vagava sulle strade della city ascoltando i Creedence Clearwater, tra piste da bowling e supermercati. Fa male pensarla oggi che è messa a fuoco e polvere dalla nota catastrofe, ma ci sono certe strane coincidenze artistiche sul tragico destino di Los Angeles. E avete presente quei film – e proprio qui è il caso di parlarne – dove la fine viene anticipata già in altre scene che si riescono a decifrare solo alla conclusione? Come quell’inquadratura rivelatrice in Memento di Christopher Nolan o quella confessione iniziale di Peter ne Il Potere del Cane. Nella realtà potrebbe mai accadere? Ma “seguimi lettore”, come incalzava Bulgakov, e torniamo alle coincidenze di cui dobbiamo scrivere. Dalla città del June gloom o del May grey sono passati Chris Burden, Bas Jan Ader, Michael Asher e Charles Ray (tanto per restare ad alcuni dei miei artisti preferiti) e registi, musicisti e altre menti incredibili. La presenza degli scrittori poi non scarseggia, che al buon cavallo non manca la sella: James Ellroy, Henry Miller, Raymond Chandler, John Fante, Charles Bukowski, e così avanti. Ma qualcuno in particolare sembra aver previsto il futuro già decenni prima, forse solo per coincidenza o per l’anticipata comprensione della città e della sua minaccia.

Ed Ruscha, Heaven Hell, 1988, acrylic on paper, 101,7×152,5 cm

Quel profeta è Ed Ruscha. A riprova di quanto dico Peter Schjeldahl, critico, scrisse nel suo libro Traffic and Laughter che “per conoscere l’arte di Ed Ruscha bisognava conoscere qualcosa di Los Angeles e viceversa: conoscere Ed Ruscha aiutava a conoscere la città”. E anche se nell’Art Voices dell’autunno del ’66 Ed dichiarò che L.A. aveva influenzato poco o nulla il suo lavoro e che “avrebbe potuto realizzare quelle cose ovunque” e, anzi, che “il clima del posto non induceva certo a mettersi a far dipinto”, quell’asserzione avveniva quando era intento a realizzare Every Building on the Sunset Strip, ovvero il suo quarto libro. Nel numero 179 di Studio International del Giugno ’70 Ruscha confermò poi di voler esplorare il medium e che non importava se il soggetto fosse una spiaggia o un luna park, gli interessava “mandare in aria quanta più sabbia possibile”. Parole non da poco, ma seguiamo l’ordine cronologico. Il catalogo ragionato delle edizioni che va dal 1959 al 1999, pazientemente organizzato da Siri Edberg e pubblicato in occasione della mostra al Walker Art Center di Minneapolis nel 1999 e che viaggiò anche al Los Angeles County e All’University of South Florida Contemporary Art Museum l’anno successivo, casca a fagiolo e vien parecchio comodo.

Ed Ruscha, Another Hollywood Dream Bubble Popped, 1976, pastel on paper, 58,8×74 cm

Del resto, oltre ad essere uno dei pittori americani più importanti del dopoguerra, Ed è anche uno dei più significativi graphic artists per il suo contributo con edizioni e libri d’artista. Ruscha arrivò a L.A. nel 1956 da Oklahoma e la documentò con gli occhi di chi veniva da un’altra galassia o epoca. Fu colpito da aspetti diversi da quelli che notavano gli autoctoni e c’è poco da intendere lucciole per lanterne se oggi quei lavori sono costosissime opere. L’Hollywood Sign, che per lui era un indicatore del clima o del livello d’inquinamento della city, le Swimming Pool dei ricchi, quella Sunset Strip che in quegli anni – i ’60 e i ’70 – divenne il cuore pulsante della controcultura, frequentata da artisti, attori e musicisti che si esibirono in club leggendari come il Whiskey a Go Go e il Roxy Theatre. Il suo primo libro è quello delle Gasoline Sations. Si tratta delle fotografie di 26 stazioni di rifornimento scattate senza un motivo specifico e in modo distaccato. Nelle interviste che rilasciò al tempo Ed disse di preferire un numero diverso dal 25 o dal 27 e ammise di aver in testa il titolo prima delle immagini del catalogo: voleva che fosse descrittivo e che avesse il contenuto già anticipato. Gasoline, inoltre, era un libro di poesie di Gregory Corso, mentre il fascino del viaggio gli era nato leggendo Jack Keruac e il suo On the Road leggendario. Il contenuto del libro fiorì ovviamente da quei costanti viaggi che intraprendeva con la sua Ford anni ’50 da Oklahoma City a Los Angeles, per i mille miglia di strada che la separano e che rendevano inevitabile la sosta per fare il pieno. Com’è vero che il viaggiò lo portò a Los Angeles, il secondo libro s’intitola Various Small Fires. Qui Ed manipolò le aspettative del lettore giocando con la relazione tra titolo e contenuto inserendo una differenza tra la copertina e il frontespizio. Il titolo Various Small Fires sulla copertina diventa poi Various Small Fires and Milk e sebbene il lettore si aspetti di trovare solo immagini dei fires, compare un bicchiere di latte come ultima immagine. Dopo le Gasoline Stations altamente infiammabili abbiamo dunque i Fires, e infatti in versioni successive le Stations le ritroviamo in fiamme nel 1966 e addirittura bruciate poi. Ma non solo le Stations presero fuoco, anche il Norms Diner e il Los Angeles County Museum saranno presto on fire nelle sue opere.

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John Baldessari, Untitled, 1986, Mixed media on paper

Ma cosa successe dopo? Uscì un libro che si intitolava Some Los Angeles Apartments e un altro ancora chiamato Every Building on the Sunset Strip. Il primo contiene 34 impassibili immagini dell’onnipresente dingbat e del condominio basso della città di metà secolo. Ed (l’artista, non la congiunzione) era infatti attratto dall’aggressiva attività architettonica che si stava svolgendo a Los Angeles in quel periodo e da quella che Frank Gehry definì la città sparsa e piena di case a schiera collegate da autostrade che la trasformarono nella città in cui si guida. Il secondo libro copre due miglia e mezzo del Sunset Boulevard e registra senza pregiudizi, senza morale o secondi fini, quelle sparse architetture per lo più orizzontali che anche nella Strip erano fiorite. E rivedere oggi quella sequenza di titoli mentre parte di Los Angeles è un ammasso di macerie tale che sembra sia passato il diavolo fa ancora più specie, soprattutto se si pensa che la sciagura fu anticipata proprio da quell’artista che ci fece alzare la testa dalla scrivania per guardare la città da una nuova prospettiva. Ma c’è un’altra storia che dà fiducia.

John Baldessari, Wrong, 1966-1968, Photoemulsion with acrylic on canvas, 149.86 x 114.3 cm

Anche John Baldessari viveva a Los Angeles e iniziò a far sul serio con l’arte dopo che nel 1970 bruciò in un forno crematorio tutte le opere che aveva prodotto dal maggio ’53 fino al decennio successivo. Da quelle ceneri nacque uno dei padri dell’arte concettuale e un’incredibile serie di meravigliose opere: i saluti alle barche prima di partire, i ritratti con cappelli diversi che coprono il viso, fotografie con composizioni volutamente poco riuscite intitolate Wrong, oggetti colpiti con mazze da golf, la serie degli indiani che cascan da cavallo o quei coloratissimi dots che coprono parti del corpo. Dunque forza “Los Angeles, dammi qualcosa di te! Los Angeles, vienimi incontro come ti vengo incontro io, i miei piedi sulle tue strade, tu, bella città che ho amato tanto, triste fiore nella sabbia”. Da Chiedi alla polvere, di John Fante.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

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