«Dobbiamo onorare le promesse fatte in termini di finanziamenti e accelerare il sostegno ai Paesi in via di sviluppo», ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres intervenendo con un video messaggio alla cerimonia di apertura della Cop16. La sedicesima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità è in corso dal 21 ottobre al 1 novembre 2024 a Cali, in Colombia. Poi ha proseguito, avvertendo che «la crisi delle attività naturali come l’impollinazione e la fine dell’acqua potabile si tradurrebbe in una perdita di miliardi di dollari per l’economia globale e i più poveri sarebbero i più colpiti». Per poi concludere con un monito perentorio: «Non siamo sulla strada giusta».
Perché non solo la quasi totalità dei Paesi firmatari del Quadro globale Kunming-Montreal dello scorso anno, alla Cop15, non ha fatto seguire alle parole i fatti, mettendo in circolo molto meno dei 20 miliardi di dollari promessi entro il 2025. Che già di per sé sono una minima parte dei 200 miliardi promessi al Sud del mondo entro il 2030 per la tutela delle biodiversità. Ma anche perché, fanno notare diversi esperti presenti alla conferenza, non esistono ancora degli strumenti o degli indicatori comuni che possano indirizzare gli Stati, le banche e le istituzioni finanziarie verso investimenti integrabili con la salvaguardia e la valorizzazione delle biodiversità.
Si parte dalle promesse tradite della Cop15
Lo scorso anno il Quadro Globale per la Biodiversità di Kunming-Montreal, al termine della Cop15, prevedeva infatti tutta una serie di investimenti volti a proteggere le biodiversità. Come la decisione di rendere aree protette almeno un terzo dei territori del pianeta (sia terre emerse sia ecosistemi marini), la riduzione dell’inquinamento e la promozione dell’uso sostenibile delle risorse naturali, la tutela delle popolazioni autoctone e indigene. Tutti obiettivi da raggiungere entro il 2030. E possibili solo grazie a una serie di investimenti, pubblici e privati, che però non ci sono stati. Oltre alla mancanza di un piano comune di azione: cosa che rende ancora più difficile, se non impossibile, il conseguimento degli obiettivi.
Come fanno notare infatti diversi esperti a Les Echos, banche centrali, istituti bancari e investitori finanziari hanno difficoltà nel quantificare gli effetti dei loro finanziamenti sulla biodiversità. Perché, a differenza delle emissioni di CO2, quando si parla di protezione della natura non esiste un indicatore comune e unico. «Gli strumenti per integrare la biodiversità nei processi decisionali delle banche sono ancora molto lontani dall’essere maturi», spiega Franck Amalric della società di consulenza Square Management. «La biodiversità incide sugli ecosistemi, ma quello che la compone sono una serie di fattori molto localizzati. Non possiamo aggregare i dati semplicemente come facciamo per l’anidride carbonica».
Cop16: alla ricerca di indicatori comuni
La stessa cosa dice a margine della Cop16 anche il Wwf. Spiegando come anche in Italia manchi ancora un Piano di implementazione che sia «adeguatamente definito e finanziato affinché le ambizioni della Strategia possano tradursi in azioni concrete e incisive». Per poi aggiungere come nel nostro Paese la natura sia ancora poco tutelata. «In Italia la superficie terrestre protetta si ferma al 21,68% dell’intero territorio nazionale. Per questo in soli cinque anni l’Italia dovrebbe creare la metà delle aree protette terrestri che ha creato a partire dal secolo scorso. Da quando nacquero i primi due parchi nazionali italiani, quello del Gran Paradiso e quello d’Abruzzo». La questione degli indicatori, quindi, resta centrale.
Cominciano a trovare spazio indicatori comuni come la MSA (Mean Species Abundance), che riflette l’abbondanza media delle specie terrestri originarie di un territorio rispetto alla loro abbondanza negli ecosistemi originari indisturbati. «Questi indicatori ci permettono di stabilire degli ordini di grandezza. Ma la biodiversità richiede indicatori più sofisticati, che tengano conto in particolare dell’aspetto locale», dice a Les Echos Alix Chosson, della società di gestione europea Candriam.
Altri strumenti, come la direttiva europea che mira a regolamentare il reporting extra-finanziario a livello continentale, dovrebbero aiutare orientare le banche. Dal 2025, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive, in vigore dallo scorso anno) riguarderà infatti le imprese con più di 500 dipendenti e integrerà nei suoi parametri anche le biodiversità.
Qualcosa va fatto, e in fretta. «Bisogna passare dalle parole ai fatti», come ha detto Guterres. Anche perché, secondo uno studio pubblicato a fine settembre dalla Banca Centrale Europea, circa il 72% delle società non finanziarie della zona euro dipendono in modo critico da almeno un servizio ecosistemico fornito dalla natura. «Se non si prendono provvedimenti, la solidità stessa del settore finanziario potrebbe essere compromessa», conclude Franck Amalric.
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