Giustizia per Ramy: una verità che non ammette fazioni

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Non si scappa all’alt delle forze dell’ordine. Se si fa, è probabile che si abbia qualcosa da nascondere. Su questo siamo tutti d’accordo. Se però ci fermiamo qui, sul caso di Ramy, non facciamo un bel servizio alla verità. Perché quello che è accaduto il 24 novembre a Milano (e, se ne stiamo ancora discutendo, è perché ne discendono temi molto rilevanti per il Paese), non è un semplice inseguimento di due ragazzi in fuga in scooter. Come sappiamo, è andata a finire nel modo più tragico: Ramy, 19 anni, è morto, caduto dal mezzo a due ruote mentre questo era tallonato da una gazzella dei carabinieri. Entrambi sfrecciavano ad alta velocità nella notte milanese, 8 chilometri da nord a sud passando per il centro con tanto di strade in contromano.

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Lo scudo penale 


Nella vicenda di Ramy sono implicati diversi temi, alcuni attinenti all’episodio specifico, altri di portata generale, come lo scudo penale alle forze dell’ordine di cui si parla da diversi giorni, anche per altre questioni. Dividersi nelle fazioni “sto con Ramy” o “sto coi carabinieri” non ha senso. Peraltro l’istruttoria non è completa. La procura di Milano attende le risultanze di due perizie, ed è eventualmente sulla base di queste, e non del filmato diffuso nei giorni scorsi, e che ha fatto così rumore, che deciderà se riformulare l’accusa ai carabinieri, trasformandola da omicidio stradale in omicidio con dolo eventuale.


Che cosa ha chiarito il filmato e che cosa no


Il filmato non ha chiarito se ci sia stato il tocco tra la gazzella e lo scooter. Nella fase finale si vedono i due mezzi attraversare ad alta velocità l’incrocio tra via Quaranta e via Ripamonti. La posizione della telecamera fa sì che lo scooter sia seminascosto dall’auto. È impossibile, da quei fotogrammi, capire la distanza tra i due mezzi e se vi sia stata una collisione. Infatti per qualcuno c’è stata, per qualcun altro no. Più utile l’analisi effettuata fotogramma per fotogramma dalla polizia locale, depositata a metà dicembre, su quanto ripreso dalla stessa telecamera stradale e da un’altra, posta in via Ripamonti. Grazie all’analisi dei fotogrammi (una quarantina in pochi secondi), si sa che non vi è stata collisione in mezzo all’incrocio, ma potrebbe (forse) essersi verificata subito prima. Nulla di nero su bianco, però.


Ma l’esistenza della collisione potrebbe anche non essere così rilevante. Molti anni fa, mentre guidavo lungo la Statale 72 Rimini-San Marino, dopo avere azionato la freccia e rallentato per entrare in un distributore di benzina, una ragazza in scooter è caduta al margine della strada, a suo dire a causa della mia intenzione di girare verso il benzinaio. Come ammesso da lei stessa, non c’era stato contatto, ma in base al rapporto dei carabinieri le assicurazioni hanno diviso in parti uguali la responsabilità. Insomma, è sicuramente importante dirimere se la collisione vi sia stata e quando, ma potrebbe non essere determinante, almeno in base alla mia esperienza personale (e al verbale dei carabinieri in quella circostanza).

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Il brutto gesto dei carabinieri che chiedono di cancellare un video


Opportunamente, la parlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra Ilaria Cucchi, la cui storia personale è nota a tutti, ha richiamato a più riprese l’attenzione non tanto sul tema dell’inseguimento, sulla sua opportunità, sulla sua durata e sulla sua modalità, tutti aspetti sui quali è più saggio, forse, attendere che la magistratura si esprima sulla base di elementi ancora non noti (la collisione, la velocità, la possibilità o meno di leggere la targa, le perizie, le valutazioni degli esperti), quanto invece sul tema del depistaggio. Ci riferiamo al brutto gesto di due militari che hanno chiesto a un testimone di cancellare un video della fase finale. Un gesto che non fa onore ai carabinieri, anche perché non poteva che emergere. E che fa andare in secondo piano, nella memoria collettiva, il fatto che invece gli altri carabinieri presenti fossero fin da subito impegnati a praticare un massaggio cardiaco a Ramy, nella speranza di rianimarlo.


E qui si introducono le riflessioni di carattere più generale. Sulle modalità operative con cui vengono praticati gli inseguimenti di polizia e carabinieri, ad esempio. Non v’è dubbio che, in questi frangenti, la priorità assoluta sia la sicurezza collettiva, e che se questa è in pericolo, l’inseguimento deve essere interrotto. Per il caso Ramy (e per ogni altro caso), ci si augura che qualcuno valuterà, in serenità, se la sicurezza collettiva, degli altri utenti della strada, fosse minata o no. E, se sì, si dovrà avere il coraggio di ammetterlo. Senza mettere alla gogna nessuno, né tanto meno l’Arma in generale, ma una democrazia è anche sostanziale soprattutto se sa guardarsi allo specchio in modo trasparente. 


Lo scudo penale: deriva autoritaria?


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Allo stesso tempo, è stato introdotto nel dibattito politico il tema dello scudo penale per le forze dell’ordine. Anche qui, la questione non riguarda solo l’inseguimento che ha portato alla morte di Ramy, ma in generale tutte le circostanze nelle quali un membro delle forze dell’ordine usa un’arma e ferisce gravemente, o uccide, qualcuno. Tra smentite e mezze ammissioni da membri del governo e della maggioranza parlamentare, è praticamente certo che qualcuno stia lavorando a un testo, ma non si conoscono ancora i dettagli. Si parla con insistenza di cancellare l’obbligo di iscrivere nel registro degli indagati i poliziotti e i carabinieri che provocano la morte di qualcuno. Una norma che, probabilmente, sarebbe accolta a furor di popolo, ma a cui chiunque abbia a cuore lo Stato di Diritto dovrebbe opporsi. L’iscrizione nel registro degli indagati è infatti a tutela dell’indagato stesso, e nulla importa, come invece ha dichiarato il ministro Nordio, che ormai sia equivalente a “un marchio d’infamia”.


È vero che, se formalmente indagati, i membri delle forze dell’ordine devono sobbarcarsi spese legali e incorrono nel rischio di sospensione e in ripercussioni sulla carriera. Ma tra loro e i comuni cittadini vi è già una fondamentale differenza: il monopolio della forza, in ragione del quale hanno un margine più ampio di intervento di un qualunque passante. Ma, come rilevato tra gli altri da Francesco Petrelli, presidente delle Camere Penali, uno Stato di diritto “è tale non solo se ha il monopolio esclusivo della forza, ma anche se pone dei limiti insuperabili al suo utilizzo”. Superati i limiti, ha affermato Petrelli, “proprio la disponibilità a processare sé stesso senza interporre ostacoli e privilegi caratterizza uno Stato di diritto”.


A parole, in maggioranza, tutti garantiscono che non si vuol dare “né immunità né impunità” alle forze dell’ordine, eppure evitare un’indagine formale su di loro (limitandosi caso mai a una raccolta d’informazioni sommarie da parte delle procure generali in Corte d’Appello) sembra proprio un modo per dar loro mano più libera nelle situazioni più delicate. Se così fosse, si tradurrebbe in un passaggio autoritario che, dando più libertà alle forze dell’ordine, ne toglie un po’ ai cittadini comuni. Vedremo il testo se e quando sarà presentato, ma il segnale non è positivo, così come l’affannarsi degli esponenti del partito di maggioranza relativa (Fratelli d’Italia) presso questure e comandi dei carabinieri per dar loro una “solidarietà” di cui non hanno bisogno, soprattutto se della parte che esprime la presidente del consiglio.






















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