Trump, cosa succede all’Europa ora? I dubbi sui piani green: l’Ue si ritrova sola

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Un po’ più sola, ma non ancora isolata. E determinata a rimanere alla guida delle politiche globali per il clima e la crescita pulita. Pur se con alcuni correttivi, per rispondere al grido d’allarme della sua industria e senza finire schiacciata nella morsa a tenaglia Usa-Cina. Dal podio del World Economic Forum di Davos, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen è passata (moderatamente) al contrattacco all’indomani dell’insediamento di Donald Trump e dei proclami del presidente degli Stati Uniti sull’alba di una nuova «età dell’oro americana» che riaccende le trivelle e stacca la spina ai sussidi a sostegno della transizione ecologica. Misure concrete che finiscono sotto un unico, ideale ombrello: la fuoriuscita per la seconda volta dall’Accordo di Parigi sul clima. Sottoscritto nel 2015 da oltre 190 Paesi, l’impegno di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi Celsius «continua a essere la migliore speranza per l’umanità», ha affermato ieri von der Leyen, consapevole che «il mondo votato alla cooperazione che avevamo immaginato 25 anni fa non è diventato realtà», ma si è semmai frammentato lungo nuove linee di frattura: «L’Europa manterrà la rotta e continuerà a collaborare con tutti i Paesi che intendono proteggere la natura e fermare il riscaldamento globale». Persa Washington, Bruxelles scommette ancora sulla diplomazia climatica: non è un caso che, nel suo intervento, von der Leyen abbia citato l’India come interlocutore privilegiato, e New Delhi come tappa del primo viaggio della nuova Commissione.

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IL TARGET

Se l’Ue ha fissato per via legislativa il target delle emissioni nette zero entro il 2050 e punta a essere il primo continente a diventare climaticamente neutrale, l’India ha condiviso l’impegno, pur optando una scadenza parecchio più diluita nel tempo, entro il 2070, per la decarbonizzazione. Serrare i ranghi e avere alleati di peso al proprio fianco, in grado di parlare con il sud del mondo in vista della Cop30 di novembre in Brasile, servirà alla Commissione anche per trovare le risorse necessarie a tappare un buco nel bilancio climatico mondiale. Con gli Usa fuorigioco, infatti, alla “cassa” Onu per aiutare la transizione pulita e far fronte ai danni prodotti dal cambiamento climatico nelle economie emergenti mancheranno da quest’anno almeno 11 miliardi di dollari, un buon 10% del totale. Quello del fondo per il clima è un proposito da cui neppure la Cina intende distanziarsi, visto che Pechino vede nelle tecnologie verdi una potente arma di espansione della propria influenza globale. È un ambito in cui Pechino si ritrova a duellare con Bruxelles. L’Ue continua a mettere il “clean tech” al centro di una strategia votata alla crescita pulita, alle rinnovabili e al rilancio della competitività. Anche qui ci sono conseguenze mediate dell’annuncio di Trump, ad esempio con lo stop ai sussidi federali “green”, compresi i crediti d’imposta per ridurre i costi delle auto elettriche: nonostante le barriere Ue all’import, le e-car cinesi escluse dal mercato statunitense potrebbero arrivare in Europa, mettendo ulteriormente sotto pressione le case automobilistiche del continente già in difficoltà (il 2024 s’è concluso con +0,8% di immatricolazioni, ma un calo del 5,9% sui veicoli a batteria). Allo studio di Bruxelles, allora, c’è – ha evocato da Davos il cancelliere tedesco Olaf Scholz – un approccio comune alle sovvenzioni pubbliche nel settore, per provare a lanciare un salvagente all’automotive.

Tra poco più di un mese, poi, l’esecutivo Ue alzerà il velo sul “Clean Industrial Deal”, una sorta di sequel del “Green Deal” ma stavolta – interpretando lo spostamento a destra nelle europee di un anno fa – con un focus sugli aiuti all’industria anziché sui paletti regolamentari per limitare le emissioni. Il pacchetto dovrebbe contenere interventi per ridurre i costi dell’energia, tra i principali freni alla competitività delle aziende del Vecchio continente, la cui manifattura è in contrazione da ormai due anni e mezzo. La mossa climatica di Trump avrebbe per l’Ue immediati risvolti energetici, che sono a catena commerciali. Con la ripresa delle trivellazioni di carburanti fossili, gli Usa sono determinati a colmare il deficit nella loro bilancia commerciale con l’Europa (vale oltre 150 miliardi di euro): dopo aver di fatto interrotto le forniture russe, l’Ue dipende infatti per il 50% del suo import di gas naturale liquefatto (Gnl) dagli Usa; una quota che von der Leyen è determinata a incrementare come leva negoziale con Trump, così da evitare la furia dei dazi universali minacciati sull’export europeo. E ciò a maggior ragione se, come ha messo nero su bianco il premier greco Kyriakos Mitsotakis – ascoltata eminenza grigia tra i popolari del Ppe – «dipenderemo dal gas per almeno altri 20 anni». In Europa, insomma, si cercano deroghe e sotterfugi, ma non si ricorre alla spugna trumpiana per cancellare la transizione. Un altro papabile obiettivo? La Cbam, cioè i dazi ambientali sulle importazioni energivore come l’acciaio, che scatteranno tra un anno con il proposito di colmare la differenza nei costi di produzione al di fuori dell’Ue. Trump potrebbe brandire anche in quel caso l’arma della rappresaglia per esigere dall’Ue trattamenti di favore (e qualche passo di lato sulla legislazione climatica).

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