A volte una fotografia spiega più di mille parole. Donald Trump, nella cerimonia inaugurale alla Casa Bianca, li ha messi uno accanto all’altro. E in prima fila. Mark Zuckerberg di Facebook, Sundar Pichai di Google, Jeff Bezos di Amazon. Tra loro forse non si amano tanto, ma c’è una cosa che, tutti insieme, amano ancora di meno: la global tax, la tassa sulle multinazionali del web decisa dall’Ocse. Per anni le varie Facebook, Google, Amazon, hanno usato schemi societari per spostare i profitti nei Paesi che li tassavano di meno. E per anni i governi colpiti dall’erosione dei loro incassi, hanno provato a rispondere con delle “web tax” nazionali. Fino a quando, in sede Ocse, non è stato trovato un compromesso basato su due pilastri. Il primo: le tasse sui profitti delle multinazionali vanno divise tra i Paesi dove questi sono realizzati, a prescindere dalla presenza di una sede fisica. Il secondo: nessuna multinazionale deve pagare meno del 15 per cento di tasse sui suoi guadagni. Ovunque li faccia. È questo secondo principio previsto dall’accordo dell’Ocse che Trump ha fatto saltare ritirando l’America dal protocollo. Il primo pilastro, sempre per l’opposizione degli Stati Uniti, molto dura sotto la presidenza di Joe Biden, era nei fatti già dato per archiviato. Sulla difesa delle multinazionali del web, insomma, c’è una linea comune tra la vecchia e la nuova amministrazione. Con una differenza però. Il neo presidente americano ha minacciato delle dure misure di ritorsione per chi avrà atteggiamenti discriminatori nei confronti delle grandi aziende americane. Una minaccia rivolta a oltre 140 Paesi in giro per il mondo che hanno aderito all’accordo dell’Ocse introducendo nei loro ordinamenti il prelievo minimo del 15 per cento.
GLI SCHIERAMENTI
Sulla global tax l’Europa si è sempre schierata in prima linea, anche perché la perdita di gettito fiscale nei Paei del Vecchio continente è stimata tra i 50 e i 70 miliardi di euro. Cifre enormi. Anche per questo la Commissione ha adottato una direttiva per introdurre la tassa del 15 per cento sulle multinazionali che fatturano più di 750 milioni. Una direttiva che l’Italia ha recepito nel 2023, all’interno della riforma fiscale del governo Meloni e che si è andata ad aggiungere alle web tax nazionale del 3 per cento sui ricavi delle società che vendono servizi on line e fatturano nel mondo più di 750 milioni. Quest’anno sarà il primo in cui la global tax dovrebbe generare risorse per le casse dello Stato. Si vedrà quanto effettivamente verseranno le multinazionali. Il punto però è, anche in questo caso, cosa farà l’Europa di fronte alle minacce di Trump.
LE REAZIONI
Smonterà la global minimum tax? Farlo non sarà semplice, anche perché alle opinioni pubbliche del Vecchio Continente, è stato raccontato che si trattava di una misura di equità fiscale: far pagare i giganti del web invece di tartassare i propri cittadini e le proprie imprese. Ma va anche detto che bisognerà pure vedere se l’Europa riuscirà a rimanere unita di fronte all’ennesima sfida di Trump. Non è da escludere che alcuni Stati possano cedere alle campane del tycoon appena tornato alla Casa Bianca. A cominciare dall’Irlanda, il Paese che sulle condizioni fiscali di favore alle multinazionali americane, ha costruito il suo successo economico. Ma sarà meglio prestare attenzione anche ai grandi Paesi come la Germania, in crisi economica e con la volontà e la necessità di attrarre investimenti delle stesse multinazionali americane, dalle gigafactory per le batterie ai data center per l’intelligenza artificiale.Anche sulla global tax, insomma, la coesione europea potrebbe essere messa alla prova. Per ora a Davos, dove è in corso il World economic forum, l’Europa si è mostrata delusa in modo compatto dalla retromarcia di Trump. C’è, insomma, la consapevolezza che tenere una posizione univoca sarà cruciale. Ed è altrettanto evidente che i rapporti con le Big tech saranno un banco di prova importante. L’Europa, oltre che a tassare, da tempo sta provando a regolamentare l’attività delle multinazionali del web, ponendo limiti alla raccolta dei dati e al loro sfruttamento. Ieri, sempre a Davos, il premier spagnolo Pedro Sanchez si è spinto oltre. In un panel sui social media, dove si discuteva degli effetti spesso devastanti su bambini e adolescenti, Sanchez, nel suo “special address” alla platea, ha lanciato un attacco durissimo destinato a Zuckerberg, a Musk e a TikTok. Hanno in mano, ha detto, uno «strumento di oppressione». Occorre «mettere fine all’anonimità» dei post, «costringere all’apertura della scatola nera dei social media, gli algoritmi, una volta per tutte» e «rendere personalmente responsabili i Ceo dei social media del mancato rispetto delle leggi e delle norme nelle loro piattaforme, proprio come accade per altri settori». Dichiarazioni incendiarie per i padroni di Big Tech. Quegli stessi che Trump ha schierato in prima fila nel giorno dell’inaugurazione, rendendo chiaro il messaggio che la loro “protezione” da regole e tasse sarebbe stata una priorità dell’amministrazione Usa. La partita è appena iniziata e si preannuncia cruenta.
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