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26 Dicembre 2024

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Ci sono settimane che condensano anni. Per intensità delle emozioni che si provano, importanza degli insegnamenti che si traggono. Un mese da un’altra parte del mondo, in un territorio che avresti presumibilmente fatto fatica ad inquadrare sul mappamondo, ti può arricchire come pochi regali.

Il pacco da scartare sotto l’albero di Natale, in casa Corno, è arrivato qualche mese prima sulla tabella di marcia. Aveva il biancoceleste e l’aquila della Lazio, ma anche del cielo limpido e delle onde sinuose dell’Oceano Indiano. E il nero, rosso, verde e giallo della bandiera mozambicana. Le due essenze di una storia da romanzo sembrano scelte casualmente. E invece combaciano.
Quando avevo circa 11 anni, dopo le Olimpiadi di Roma, il nonno di Simone Santi mi ha messo il pallone in mano. Qualche mese fa, suo nipote mi ha chiamato e mi ha convinto ad accettare una sfida impossibile anche solo a pensarci”, racconta Aldo Corno, leggenda del nostro basket.

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Un dominio incontrastato
La sua è stata una carriera fuori dal comune. Dopo essere sceso in campo quasi sempre l’aquila sul petto, con alcune esperienze saltuarie alla Snaidero Udine e alla Stella Azzurra, nel 1979 è passato dal parquet alla panchina, entrando nello staff tecnico della Juventus Roma. Lì non aveva solo incontrato il principio di una nuova carriera, ma una compagna di vita in Antonella Ferrante.
L’anno successivo, Viterbo gli aveva affidato la guida della squadra in Serie A, mentre nel 1984 era giunto il grande salto, andando ad allenare Vicenza, prima tappa di un percorso infinito. Il palmares parla chiaro: 12 Scudetti, 6 Coppe Italia, 6 Supercoppe, 6 EuroLeghe, 1 Mondiale per Club. “Tutto quello che ho fatto è stato un onore. Non mi sono mai sentito un allenatore di Serie B”, dice.
Ogni anno doveva arrivare il mio passaggio al maschile, ma l’ho sempre rimandato dedicando la mia vita al femminile. Non ho mai avuto e mai avrò rimpianti di non aver allenato la Virtus Bologna, Varese o le superpotenze del nostro basket maschile. Ho allenato le più grosse compagini della nostra pallacanestro femminile e ne ho tratto il massimo della soddisfazione”, afferma con orgoglio.
Prima a Vicenza e poi con Comense, intervallando anche tre esperienze alla guida delle Azzurre, aveva conquistato qualsiasi trofeo possibile ed immaginabile. Il tutto in Italia, pensando ad un passaggio all’estero come un passo indietro nella propria carriera, senza grossi stimoli.
Negli anni ’80 abbiamo dominato l’Europa con Vicenza e negli anni ’90 abbiamo dominato l’Europa e l’Italia con la Comense. Le mie squadre e in generale il movimento italiano non aveva rivali nel panorama europeo della pallacanestro femminile. Non ho mai avuto occasione di uscire fino agli anni 2000, quando ho lasciato la Comense”, ricorda.
Lo sfizio di vivere un’esperienza all’estero, però, se l’è comunque dedicato. Senza andare troppo lontano, affacciandosi un po’ più in là del Frejus. “Ho avuto proposte dalla Russia, ma non volevo andare né troppo lontano né troppo al freddo. Mi sono deciso nel 2009: prima di rimbambire, volevo vivere un’esperienza all’estero”, aggiunge. La destinazione? Francia.
Avevo incontrato più volte Challes-les-Eaux da avversario quando erano campioni di Francia, conoscevo sia l’ambiente che la dirigenza. Erano saliti in Serie A l’anno prima e volevano ricreare un progetto triennale di un certo livello: ho deciso di andare rifiutando un’offerta polacca e sono molto contento di aver vissuto quest’esperienza”, dice riportando la mente al triennio 2005-2008.
Fino a pochi mesi fa, quei tre anni nel campionato francese – oggi in costante ascesa, inferiore solamente a Spagna e Turchia per competitività a livello internazionale – avrebbero potuto essere la sua unica esperienza fuori dai nostri confini. Invece, è arrivata una chiamata da Simone Santi.

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Ritornare bambini
Dall’altra parte della cornetta, il fondatore dell’iniziativa Lazio Colors, che si impegna a dare nuove opportunità di vita assaporando lo sport a tanti ragazzi e ragazze di svariate estrazioni sociali. Dal 2009, il progetto è stato anche esteso al Mozambico, dove il portoghese è lingua ufficiale.
“Legado” si può tradurre in diversi modi, con eredità e lascito che meglio restituiscono il significato di questa parola, su cui Simone Santi si è soffermato per convincere Aldo Corno ad imbarcarsi direzione Maputo. “Con cinque coronarie rifatte riesco ancora a dare una mano”, avrà pensato. “La Lazio Colors ha lo straordinario merito di creare queste opportunità. Il mio legado è stato restituire un po’ di pallacanestro. Sono andato in punta di piedi, ho fatto quel che potevo dando il mio 100%. Ma il lascito l’ho avuto io, perché questa rimane una delle esperienze più belle della mia carriera, della mia vita”, sottolinea con vivida emozione.
A quasi 74 candeline da spegnere, uno degli allenatori più vincenti nella storia dello sport italiano ha guidato una rappresentativa nelle finali del campionato mozambicano, che copre un territorio di 2600 km e viene diviso in tre fasi territoriali, con le fasi conclusive che si svolgono nella capitale.

In 14 partite disputate nell’arco di 16 giorni, con quarti da 12 minuti ciascuno in stile NBA, si sono condensati una serie di momenti, significati ed istantanee che difficilmente Aldo Corno potrà dimenticare. Sorrisi che valgono una Final Four di Eurolega, o un dominio incontrastato all’intero di un intero panorama cestistico. Specialmente per dove stava sperimentando tali sensazioni.
Il Mozambico è uno dei Paesi più poveri al mondo, e il quartiere dove ci allenavamo è uno dei più poveri di Maputo. In questa baraccopoli c’è un orfanotrofio dove la Lazio Colors ha fatto il suo primo centro. Da lì è nato tutto. Le ragazze erano tutte uscite da lì. Ci allenavamo all’aperto, il che mi ha riportato indietro con la memoria agli anni Sessanta e Settanta”, racconta.
Ho conosciuto le storie di queste ragazze, che davano veramente il cuore, e i loro background. La stragrande maggioranza non ha una famiglia alle spalle. Al tempo stesso, centinaia di bambini ci guardavano allenarci. Ogni volta speravano che ritornassi il giorno dopo. È stata un’esperienza bellissima che può darsi che torni a rifare. Io ho conosciuto la pallacanestro in parrocchia, in una dimensione innocua e genuina, come loro: ho vissuto ancora una volta queste sensazioni”, dice.

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Gambe, cuore e testa
Allargando l’orizzonte, la pallacanestro africana è sicuramente in costante crescita, anche e soprattutto nel femminile. “L’Africa è il futuro della pallacanestro. Io ho dato una mano dal punto di vista organizzativo, ho cercato di imprimere sulla parte tecnico-tattica: quando riusciranno ad aggiungere determinati dettami, domineranno il mondo”, dice Aldo Corno.
Se ci fosse più stabilità in tanti paesi del continente africano, non ci sarebbe competizione. Dal punto di vista fisico, sono di un altro livello: le mie playmaker erano delle schegge, atleticamente validissime. Il basket africano sta crescendo nel maschile, ma anche e soprattutto nel femminile stanno mostrando cose validissime”, continua l’ex allenatore di Vicenza e Comense.
La sua, però, non è stata né un’esperienza di anni né tantomeno un progetto continuato nel tempo. Ha già deciso che tornerà per una decina di giorni per tenere un corso di aggiornamento ai tecnici mozambicani, che “si aggiornano e leggono libri”, ma senza una struttura organizzativa alle spalle.
Nel complesso del Pavillon Maxaquene di Maputo, il luogo al coperto più grande di tutta la nazione, dove Papa Francesco aveva svolto messa generale nel suo viaggio in Mozambico e Madagascar del 2019, si sono svolte le finali del campionato femminile, in diretta sulle reti televisive nazionali. Alla fine, è arrivato un bronzo. Ma soprattutto è arrivata la consapevolezza che ne fosse valsa la pena. “I primi giorni che abbiamo lavorato con le ragazze siamo stati in palestra ore ed ore. All’inizio mi avranno odiato, povere: ho riempito le loro teste con nozioni che non conoscevano, e si stavano quasi arrendendo. Mi sono venute dietro e ci siamo portate a casa la medaglia di bronzo”, dice.
Un’istantanea precisa non abbandonerà i ricordi di Aldo Corno. “Quando sono andato via, le ragazze mi hanno salutato indicandosi la testa. Perché continuavo a dire che era fondamentale metterci gambe, cuore e soprattutto testa. È stato bellissimo constatare come avessero recepito e tratto insegnamento da quel mio consiglio. Questo è stato il mio legado”, conclude.

Puoi vincere tutto, inserire il tuo nome nei libri di storia. Puoi allenare compagini leggendarie e lasciare il segno facendo sì che tanti si ispirino al tuo lavoro. Ma non puoi prevedere le bellezze di un’esperienza da cui hai tutto da scoprire. Il Mozambico ha fatto un bel regalo ad Aldo Corno.

                                                                                                                                                    Cesare Milanti

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