Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha riferito al Parlamento che Osama Elmasry Njeem “Almasri”, capo della polizia giudiziaria libica, arrestato per crimini contro l’umanità e ricercato dalla Corte penale internazionale (CPI), è stato rimpatriato a Tripoli “per urgenti ragioni di sicurezza, con mio provvedimento di espulsione, vista la pericolosità del soggetto”. Ma la decisione della sua liberazione, osserva Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale e dell’Unione Europea all’Università La Sapienza di Roma, per come è stata presa e alla luce delle procedure che coinvolgono il Ministero della Giustizia, ha tutta l’aria di essere frutto di una scelta politica. Probabilmente per non inimicarsi i libici. Tanto è vero che la stessa CPI ha chiesto all’Italia spiegazioni su quanto accaduto, tanto più che l’uomo è stato trasferito in Libia (dopo essere stato bloccato a Torino in seguito alla partita Juventus-Milan, di cui è stato spettatore) con un aereo di Stato. Almasri è accusato di torture sui migranti nel carcere di Mitiga.
Almasri doveva essere consegnato alla CPI e invece è stato liberato. Dal punto di vista della procedura, cosa doveva succedere una volta arrestato e cosa invece è successo che ha portato alla scarcerazione?
Lo Statuto della CPI prevede, all’art. 86, l’obbligo degli Stati di cooperare con la Corte al fine di consentirle l’espletamento del proprio mandato. In particolare, l’art. 89 dello Statuto indica che gli Stati sono obbligati a eseguire un mandato di arresto e a consegnare l’arrestato alla Corte. Lo Statuto prevede anche l’obbligo per gli Stati di dotarsi di norme procedurali per tali forme di cooperazione. Il modo più semplice ed efficace sarebbe stato quello di riconoscere automaticamente i mandati di arresto della Corte e di eseguirli attraverso i giudici e la polizia giudiziaria, come si fa per i mandati di arresto spiccati nell’ambito dell’Unione Europea. Ma lo Statuto non indica una scelta di questo tipo e lascia ampio margine agli Stati di scegliere le modalità di cooperazione.
L’Italia che modalità ha scelto?
La legge 237 del 2012 ha identificato nel ministro della Giustizia l’organo competente a ricevere un mandato di arresto e a diramarlo al procuratore presso la Corte d’appello di Roma, il quale dovrà provvedere a eseguire il mandato di arresto secondo le regole della procedura penale italiana e successivamente a consegnarlo alla CPI. Il mandato di arresto nei confronti di Osama Elmasry Njeem è stato spiccato il 18 gennaio scorso e diramato attraverso il sistema Interpol. Una volta localizzato a Torino, la polizia giudiziaria ha eseguito in via cautelare l’arresto, come se fosse un ordinario mandato di cattura internazionale. A tale misura avrebbe dovuto far rapidamente seguito la richiesta di esecuzione del mandato di arresto da parte del ministro della Giustizia. L’art. 2, par. 3, della legge 237 indica che l’esecuzione debba avvenire in tempi rapidi. Tuttavia, sembra che nessuna richiesta sia pervenuta al procuratore da parte del Ministero, nonostante sollecitazione della Procura. La mancata richiesta del ministro ha quindi comportato la scarcerazione di Osama Elmasry Njeem, pur accusato dalla CPI di crimini di guerra e contro l’umanità.
Allo stato dei fatti, l’unica spiegazione possibile della vicenda sembra essere che la sua liberazione sia stata una scelta politica, per non inimicarsi i libici?
Questa spiegazione sembra l’unica possibile, anche alla luce di talune dichiarazioni secondo le quali un mandato di arresto da parte della CPI potrebbe essere sindacato nel merito dagli Stati. Non è così. Non vi è, giuridicamente, alcuna possibilità per gli Stati parti della Corte di rivalutare i provvedimenti della Corte. La CPI è stata istituita con un trattato internazionale ratificato dall’Italia e, quindi, i suoi provvedimenti sono vincolanti a livello internazionale. Essi sono anche vincolanti nell’ordinamento italiano, dato che la legge 237/2012 non lascia alcuna discrezionalità al potere politico. Se il ministro della Giustizia avesse avuto notizia del mandato di arresto, come sostengono sia la CPI in un suo comunicato, che la Procura presso la Corte d’appello di Roma, egli sarebbe stato vincolato dalla legge italiana ad agire rapidamente, nel rispetto della legge processuale penale.
Il fatto che, a quanto pare, sia stato rimpatriato con un aereo di Stato conferma questa interpretazione?
La circostanza che Osama Elmasry Njeem sia stato rimpatriato così velocemente con un aereo di Stato rafforza l’idea che il Governo fosse consapevole dell’esistenza di un mandato di arresto vincolante per l’Italia sul piano internazionale e vincolante per il ministro della Giustizia sul piano nazionale.
Che obblighi ha l’Italia nei confronti della CPI? Come dovrebbe comportarsi rispetto ai provvedimenti dei giudici internazionali, di cui riconosce la giurisdizione?
L’obbligo di eseguire un mandato di arresto è chiaramente stabilito dallo Statuto. In caso di difficoltà, inoltre, gli Stati non possono disattenderlo, ma hanno un obbligo di consultazione con la Corte penale. Non sembra che tali consultazioni siano state avviate dal Governo italiano. Per lo meno, la Corte, in un suo comunicato, ritiene che nessuna richiesta di consultazione sia stata inoltrata alla Corte e, in ogni caso, per tutto il periodo di consultazione, il destinatario del mandato di arresto deve essere tenuto in custodia cautelare o altra misura che impedisca di sottrarsi alla giustizia internazionale.
Il caso dell’ufficiale libico fa seguito a quello di Mohammed Abedini Najafabadi, liberato dopo la scarcerazione di Cecilia Sala. La gestione di questi casi diventa sempre più politica?
Sono due casi diversi. La carcerazione di Mohammed Abedini Najafabadi era dovuta a una richiesta di estradizione di un altro Stato, gli Stati Uniti. Le procedure di estradizione si fondano su una compartecipazione del potere politico e di quello giudiziario. Il ministro della Giustizia ha sempre la possibilità di non concedere l’estradizione per motivi discrezionali. Il mandato di arresto della CPI, invece, è vincolante sul piano internazionale e la disciplina legislativa italiana non dà alcuna discrezionalità al potere politico. Il ministro della Giustizia, in tale procedura, è semplicemente un organo di raccordo fra la CPI e i giudizi interni.
Così si rischia di ridurre lo spazio di azione per contrastare i crimini che hanno ricadute a livello internazionale?
L’omissione da parte del ministro della Giustizia della richiesta di arresto della CPI, alla quale ha fatto seguito un rimpatrio con un aereo di Stato, non segna solo una violazione di un obbligo internazionale ma anche un’interferenza nel potere giudiziario, sia quello della CPI, riconosciuta nel nostro ordinamento, sia quello dei giudici italiani, gli interlocutori della Corte nell’esecuzione di un mandato di arresto. Sul piano politico, che l’Italia sottragga alla giustizia internazionale un individuo accusato di crimini contro l’umanità sembra davvero un affronto all’etica pubblica prima ancora che alla giustizia. E l’etica e la giustizia non si possono pesare con considerazioni politiche.
(Paolo Rossetti)
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link