CARRI ARMATI AL POSTO DELLE AUTO/ Riarmo Ue, un “ammortizzatore” per assorbire gli esuberi dell’automotive


Il colosso della difesa tedesca Rheinmetall sta valutando l’acquisto da Volkswagen di alcune fabbriche che si avviavano alla chiusura. Il titolo della casa automobilistica negli ultimi due anni si è dimezzato mentre quello di Rheinmetall si è moltiplicato per sette volte.

Il settore auto europeo versa in una crisi strutturale perché è stato costretto dai piani della Commissione europea a rinunciare al suo vantaggio competitivo, nei motori termici, per investire, tra regole e multe, in quello dell’elettrico. L’Europa non controlla le catene di forniture del motore elettrico, è indietro di almeno un decennio rispetto alla competizione cinese e ha un enorme problema sui suoi mercati elettrici dove c’è troppa domanda e troppa poca offerta dell’unica energia che abbia un valore: quella programmabile.

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C’è poi un tema di salari reali e di aumento del costo medio delle automobili. Il settore della difesa europeo vive invece una stagione esaltante perché i Governi annunciano piano di riarmo per migliaia di miliardi di euro da cui escono programmi di investimento pluriennali. Per le imprese è il massimo: cliente ricco, visibilità sugli ordini a lungo termine, poca attenzione al prezzo e molta alla velocità e quindi profitti sicuri.



Le trattative tra Rheinmetall e Volkswagen sono la rappresentazione massima di una nuova “visione” che mette a posto tutto. Non c’è futuro per l’auto europea dentro le regole che la Commissione ha imposto, ma rimane sul tavolo il tema di un settore che per ricadute occupazionali è ancora il più importante tra quelli industriali. La “difesa” arriva come cavaliere bianco salvando tutto. La “difesa” fa bene al Pil, all’economia, agli ingegneri e agli operai e li salva dalla minaccia della disoccupazione. Li salva con stile perché gli investimenti in difesa hanno un’altra caratteristica e cioè sono al riparo da qualsiasi guerra commerciale e da qualsiasi fatica di trovare un accordo con partner, alleati o nemici.

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È forte il sospetto che questa mutazione eserciti un’attrattiva irresistibile sulle élite europee che oggi dovrebbero altrimenti dare conto alle famiglie europee di due scelte di fondo della strategia economica dell’Unione. La prima è stata la scelta di perseguire un modello basato sulle esportazioni comprimendo, anche dolorosamente, salari e domanda interna e limitando al massimo gli investimenti.

L’esempio massimo, che tutti per inciso dovevano imitare, è stata la Germania. Oggi l’Europa si accorge che la propria economia è legata alla domanda altrui molto più di quanto non fosse vero fino al 2010. Il corollario è che nella guerra commerciale che ha preso il via la posizione negoziale dell’Europa è fragilissima e che quello che si è guadagnato in bilancia commerciale non si è perso solo in potere d’acquisto e salari ma anche in indipendenza.

La seconda scelta è quella di una transizione energetica ideologica. Anche in questo caso la Germania ha dato l’esempio massimo decidendo di chiudere i propri reattori nucleari tra il 2021 e il 2023, quando scoppiava la guerra in Ucraina, dopo aver speso centinaia di miliardi di euro in rinnovabili, si stima oltre 500, senza che ci fosse una soluzione all’orizzonte né per la produzione a condizioni economiche di idrogeno, né di batterie.

Anche l’Italia ha fatto la sua parte perché la somma degli incentivi concessi alle rinnovabili negli ultimi due decenni, per raggiungere gli obiettivi green dell’Ue, si misura con l’unità delle centinaia di miliardi. Solo di incentivi si sono spesi circa 150 miliardi di euro a cui poi bisogna aggiungere gli investimenti per adeguare le reti ai picchi, alla volatilità e alla non uniforme distribuzione geografica delle rinnovabili. In Italia con quelle somma oggi ci sarebbero tra le cinque e le dieci centrali nucleari nuove con cui soddisfare il 20% della domanda elettrica italiana.

È, più o meno, la domanda coperta dalle fonti rinnovabili con una piccolissima differenza: quella rinnovabile è imprevedibile per definizione e localizzata in poche regioni al punto da poter essere sprecata e la seconda c’è sempre, non impone costosi aggiornamenti della rete o contributi pubblici alle centrali a gas, che devono rimanere aperte anche per poche ore di accensione. In Italia poi sono arrivati i divieti di qualsiasi trivellazione di gas nazionale. Il risultato di queste scelte sono state la morte della competitività europea.

La guerra è un grande business, ma in Europa assume un significato aggiuntivo. Essa consente di passare un colpo di spugna su tre decenni di scelte senza senso levando le castagne dal fuoco a chi dovrebbe dare qualche spiegazione e che oggi ha un’opportunità unica. È quella non solo di non dover pagare il conto politico ma di potersi presentare come salvatore della patria, e dell’economia, a forza di posti di lavoro buoni e sicuri senza per altro dover spiegare cosa esattamente questo comporti per la vita delle famiglie gravate da un debito da cui non usciranno utilitarie e case, ma carri armati e cannoni.

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