Il vagito contraddittorio di Elly Schlein

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La recentissima puntata in terra nordestina di Elly Schlein per denunciare «la privatizzazione strisciante» del sistema sanitario nazionale e regionale veneto ha avuto una certa eco mediatica: soprattutto quando la segretaria nazionale del Pd ha fatto tappa in un luogo simbolo di quella che in molti considerano una vera e propria deriva, l’ospedale di Santorso nell’Alto vicentino. In questo senso la memoria torna alla marea umana che invase le strade proprio tra Schio e Santorso nell’ottobre del 2021 giustappunto con l’obiettivo di denunciare il depauperamento di questo diritto fondamentale, raggiunto in Italia nel ’78 grazie alla legge Anselmi, in forza di un ampio accordo tra i due principali partiti dell’epoca: la Democrazia cristiana ed il Partito comunista.

Di più, la capatina veneta di Schlein ha anche dato vita ad un dibattito politico nel Vicentino. Al quale ieri 27 gennaio ha contribuito Massimiliano Zaramella. Il presidente del consiglio comunale di Vicenza infatti, forte della sua esperienza di medico, sull’argomento ha diramato una nota piena di spunti di riflessione: alcuni di natura generale altri di ordine più specifico. Spunti peraltro che non si discostano molto da quanto propugnato dal professor Andrea Crisanti, oggi senatore del Pd. Rimane da capire però se Schlein abbia in mente di cambiare davvero le cose o se invece, stia semplicemente accarezzando il problema per non intaccare lo status quo. Nel quale la sanità veneta c’è cascata in pieno, complice un quindicennio di dominio assoluto del governatore leghista Luca Zaia: che si è ben guardato dall’impegnarsi per invertire la tendenza: continuando impassibile con la prassi della intangibilità della cinghia di trasmissione tra palazzo Balbi e le Ulss sparse sul territorio.

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Ad ogni buon conto nel Veneto l’ospedale di Santorso in Val Leogra è un luogo simbolo, perché assieme quello dell’Angelo di Mestre rappresenta la totale adesione dei ceti dirigenti del Pd, quantomeno dell’epoca, ai diktat della dottrina neo-liberale: definitivamente fatta propria dal grosso della sinistra occidentale con l’avvento di Bill Clinton e Tony Blair. Gli ospedali di Santorso e Mestre (una eredità del centrodestra veneto dei primi anni Duemila) non solo furono appoggiati senza se e senza ma dagli allora vertici nazionali e regionali del Pd: ma per di più vennero realizzati con uno degli strumenti più mortiferi che il parlamento (in modo assolutamente trasversale tra gli schieramenti): quello del partenariato pubblico-privato, meglio noto nella sua dizione pseudo anglofona di project-financing.

A Santorso né Schlein, né le altre vedette democratiche che la accompagnavano, Alessandra Moretti in primis, hanno mai azzannato alla giugulare questo strumento. Il quale, già presente nell’ordinamento italiano in modo molto frammentato, divenne presenza stabile solo grazie al decreto legge numero 50 del 18 aprile 2016. Norma varata quando in un periodo in cui a capo dell’esecutivo si passarono il testimone due pezzi da novanta dell’allora Pd: Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Tra gli infausti frutti della pratica del project financing oltre a molti ospedali in giro per il Nordest e per il Belpaese, c’è la Superstrada pedemontana veneta nota come Spv: ma lo strumento è stato usato disinvoltamente in mezz’Italia dalle amministrazioni di ogni colore politico.

Questo istituto giuridico ha un vizio di fondo. Come la riforma del lavoro nota come legge Biagi-Treu, come la compressione progressiva dei diritti di sciopero, come la sterilizzazione della scala mobile ad opera del governo Craxi, come la privatizzazione delle banche pubbliche, come la privatizzazione della industria di Stato, come la gestione privatistica dei monopoli naturali quali spiagge, aeroporti, autostrade, reti energetiche, come la privatizzazione de facto di parte del sistema sanitario, come la riforma del titolo V in senso autonomista della Costituzione (voluta dal centrosinistra e benedetta dal centrodestra) questo istituto giuridico per l’appunto è parte di un unico disegno. Un disegno abbozzato sulla metà degli anni ’70: quando le riforme in senso socialista e socialdemocratico che avevano, dove più dove meno, toccato tutto il cosiddetto Occidente (qualsiasi cosa significhi questo vocabolo), vennero messe in discussione.

Da chi? Da un consesso ristretto di portatori di interessi forti cementati tra loro: produzione, finanza, complesso militare industriale, industria culturale, editoria, hi-tech i-company et similia. Questa traiettoria, che ebbe alcuni dei più illustri uomini immagine in Ronald Regan e Milton Friedman è stata descritta minuziosamente in centinaia di libri che hanno decostruito alla radice i princìpi fondanti «dell’ordoliberismo»: sia nella sua declinazione di destra che in quella di sinistra. Fra questi testi, forse, i più famosi sono  «Il secolo breve» di Eric Hobsbawm e «Super imperialism» di Michael Hudson. Sull ascorta di questi dogmi oggi la ricchezza mondiale è concentrata in mani ristrettissime come mai non era stata prima.

La questione di fondo però è che a partire dagli anni ’80, «l’agenda turboliberista» è stata abbracciata da quasi tutti gli schieramenti politici, economici, sociali e sindacali. E la sanità, come l’istruzione, sono due degli ambiti dove più si è potuto constatare la volontà «del kombinat oligopolisa» di smembrare il welfare state. Ora senza la volontà precisa, che chiaramente non si può dispiegare dall’oggi al domani, di risolvere il problema uscendo dal problema, sarà ben difficile rimettere la macchina della sanità pubblica in carreggiata. Ed è in questo senso che l’uscita di Schlein, più che un ruggito, sembra un primo, sfiatato, vagito. Il vagito di una campagna elettorale veneta alle porte in cui non si ode il grido di guerra di chi ha intenzione di riportare il treno sui binari: costi quel che costi.

In questo contesto vanno comunque valutati alcuni aspetti contingenti che fanno parte del problema. Lo scarso appeal economico per la professione medica pubblica, di cui parla anche Zaramella, è indubitabile. Il fatto che debbano essere previsti meccanismi per cui a medici e infermieri che si occupano delle incombenze più gravose (pronto soccorso, alta intensità chirurgica, anestesia) debbono essere riconosciute retribuzioni ben maggiori di chi «fa il dermatologo o il radiologo» è ovvio. A questo va aggiunto però il peso della lobby dei medici: basti pensare alle pressioni sul parlamento affinché non si regoli, o meglio affinché non si vieti, l’esercizio della professione in privato a chi opera nel pubblico.

Come un magistrato non può aprire uno studio legale mentre fa il giudice o il pubblico ministero, lo stesso divieto, mutatis mutandis, dovrebbe ricadere sul medico. Allo stesso modo va cancellata la disciplina che garantisce ai medici di famiglia di essere soggetti privati che operano in regime di convenzione col pubblico. Come? Scrivendo una legge, tra Montecitorio e palazzo Madama, così che la norma inquadri finalmente tali professionisti come come soggetti assunti direttamente dal servizio sanitario nazionale, con contratto in capo al Ministero della salute: togliendo di mezzo, in questo caso, il potere di interposizione delle Regioni. Sarebbe un primo passo per colmare il gap tra medici di famiglia e territori che ne sono sprovvisti o che scontano careze di altro genere.

Poi, per ultimo ma non da ultimo, rimane il dramma della perdita di competenze da parte di molti addetti ai lavori. Tanto che, oggi come oggi, se per assurdo ci fossero tutte le risorse che servono, la burocrazia sanitaria non sarebbe nemmeno in grado di allocarle ed impiegarle correttamente. In questo senso la lottizzazione partitica, le mani della politica e degli interessi particolari sulla sanità pubblica hanno un peso determinate. Questa accusa viene mossa da più parti. Crisanti è uno dei più duri censori di questo andazzo, che «è tipicamente italiano» ribadisce da tempo il professore. Questi ed altri drammi sono stati ben descritti in alcuni libri pubblicati di recente: da «Il futuro della nostra salute» di Silvio Garattini a «Codice rosso» di Milena Gabanelli e Simona Ravizza: per non parlare delle decine e decine di analisi distillate negli anni dalla fondazione Gimbe e dal suo presidente Nino Cartabellota.

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