Leila Fteita. Io, innamorata del teatro in un mondo di uomini

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on basterebbero cento pagine per elencare gli spettacoli che ha realizzato prima come assistente poi come scenografa titolare, senza contare i grandi personaggi con cui ha collaborato, per fare alcuni nomi Mauro Pagano, Ezio Frigerio, Dante Ferretti, Liliana Cavani, Luca Ronconi, Hugo De Ana, Alvis Hermanis, David Pountney, Chiara Muti. E i teatri che l’hanno accolta: in Italia certamente i più importanti, ma anche in Francia, Spagna, Russia, Oman, Cina, persino in Colombia. 

Trecento opere liriche e duecento spettacoli di prosa

«Nelle mie biografie ufficiali ometto almeno il 30 per cento, altrimenti la gente non ci crederebbe», spiega, con una semplicità e una freschezza da ragazzina innamorata del teatro, Leila Fteita, classe 1960, una delle scenografe (e a volte anche costumista) più apprezzate a livello internazionale. «Ho firmato, come collaboratrice e titolare, circa 300 opere liriche e 200 spettacoli di prosa». 

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L’ultimo lavoro, in scena fino al 7 febbraio alla Scala, è la ripresa della storica regia di Giorgio Strehler del Falstaff verdiano, per il quale Leila Fteita ha ricostruito filologicamente le scene di Ezio Frigerio, che aveva già affiancato per il 7 dicembre 1980 quando l’allestimento debuttò. Pochi giorni fa è stato annunciato in Scala che al grande scenografo scomparso nel 2022 verrà dedicato un museo a Erba, sua città natale. 

«Il mio sangue misto, fonte di grande energia»

Insomma, quello di Fteita è un carnet enorme che testimonia una dedizione totale al lavoro e una passione che non è mai venuta meno in quarant’anni di carriera. Tutto merito, scherza, «del mio sangue misto, fonte di grande energia».

Perché? Che origini ha?

«Mia madre si chiamava Laura Patrucco, ed era di San Germano, vicino a Casale Monferrato. Era una persona vivace, attiva, che amava viaggiare. A Londra, dove era andata a studiare l’inglese, conobbe mio padre, un diplomatico libico ambasciatore a Washington, uomo bellissimo e affascinante. Si innamorarono, fecero tre figlie (io sono nata a Tripoli) e condussero una vita da mille e una notte. Papà però mancò che io avevo cinque anni. I funerali di Stato si tennero in Libia, dopodiché ci fecero vedere i sorci verdi: volevano trattenere noi bambine perché ultime eredi di una famiglia blasonata, alla mamma tolsero pure la patria potestà. Dopo tre anni siamo scappate coi vestiti per andare al mare, lasciando a Tripoli tutto quello che avevamo».

Cosa le è rimasto di questi primi anni avventurosi?

«La gran voglia di viaggiare. Non mi affeziono mai ai posti. Se domani mi dicono “vai a Katmandu”, io faccio la valigia, chiudo casa, la vendo. Non mi sento radicata da nessuna parte. Neanche a Milano: ho fatto base qui, sui Navigli, perché lavoravo tanto alla Scala e al Piccolo Teatro. Ma fin quando i miei due figli avevano sei anni li portavo con me in tutto il mondo, nei posti dove lavoravo: si viveva in albergo, con una tata che si occupava di loro».

Leila Fteita Scala

Mauro Pagano, il primo vero maestro di Leila Fteita

Quali sono stati i suoi inizi?

«Ho sempre saputo quello che volevo fare. I miei studi sono stati assolutamente mirati perché avevo una predisposizione per il disegno e la progettazione. A Casale Monferrato ho frequentato elementari, medie, liceo artistico e poi l’Accademia delle Belle Arti di Torino. Dopo la laurea, nel 1983, ero già a Roma con Mauro Pagano, il mio primo vero maestro».

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Come lo conobbe?

«Successe così: mi fecero il suo nome a Cinecittà, io cercai il suo numero di di telefono e l’indirizzo sulle Pagine Gialle, gli citofonai e mi presentai. Aveva casa e bottega, come spesso accade agli scenografi, e io vivevo da lui. Con Pagano ho lavorato a Salisburgo per cinque anni: Il ritorno di Ulisse in patria, libera ricostruzione di Hans Werner Henze da Monteverdi, Così fan tutte con Riccardo Muti e Don Giovanni con Karajan sul podio, entrambi per la regia di Michael Hampe. Alla Scala, Il Fetonte con la regia di Luca Ronconi. Pagano poi si è ammalato: andavo a trovarlo in ospedale e gli facevo vedere i disegni attraverso i vetri. È morto giovane e al suo funerale, nel 1989, Frigerio mi ha chiesto di diventare la sua assistente». 

E qui è cominciato il sodalizio con la coppia Strehler-Frigerio.

«Ho sempre preferito l’opera perché mi affascina l’aspetto musicale. Ma Giorgio diceva: “no, devi fare anche la prosa”. Confesso che un po’ mi annoia, pure l’Arlecchino, che peraltro ho fatto per vent’anni. Così sono arrivati anche I giganti della montagna L’isola degli schiavi al Piccolo Teatro. Mentre in Scala, oltre al FalstaffLe nozze di FigaroDon GiovanniCosì fan tutte».

Leila Fteita Così fan tutte

Volevo fare un lavoro maschile

A un certo punto ha scelto tra scenografia e costumi.

«Spesso, con Pagano, sono stata assistente per entrambi. Ma il lavoro era enorme. Quando si è trattato di decidere, ho puntato sulla scenografia perché volevo fare un lavoro maschile: il palcoscenico, infatti, è un ancor oggi un mondo maschile.

Mi sono sempre confrontata alla pari con i colleghi, del resto vengo da una famiglia di donne forti e indipendenti, dove gli uomini hanno sempre avuto poca voce in capitolo. Ho conquistato la loro fiducia, oltre che per la professionalità, lavorando senza risparmiarmi: non ho mai fatto vacanze, non ho preso i periodi di maternità, allattavo i figli dietro le quinte. Ho lavorato anche durante il Covid per gli spettacoli in streaming. Non ho hobby: che so, yoga, arrampicata. Quando esco da teatro, vado al cinema».

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Cosa è scattato quando, dopo tanti anni di esperienza, ha cominciato a firmare in prima persona le scenografie? 

«La verità è che a un certo punto mi sono stufata di fare l’assistente, di non essere l’interlocutore principale del regista. Anche perché spesso capitava che io facessi la maggior parte del lavoro, e poi il merito se lo prendeva tutto lo scenografo. Quando l’ho capito, è stato come svegliarsi con una doccia fredda. Certo poi non è facile costruire i rapporti coi registi, sono loro che ti chiamano. Ma questo dipende dalla tradizione del teatro».

Registi e scenografi vanno messi sullo stesso piano

Che cosa intende?

«La figura del regista capocomico è sempre esistita (e spesso era lui stesso a disegnare le scene), mentre quella dello scenografo è nata nel Dopoguerra. E ancora ne paghiamo le conseguenze. Trovo sbagliata questa concezione, perché l’immagine di uno spettacolo che circola e che il pubblico ricorda è quella della scenografia. Regista e autore delle scene, soprattutto nell’opera, dovrebbero essere messi sullo stesso piano: non solo per quanto riguarda la paternità di un allestimento, ma anche dal punto di vista finanziario. Non è un caso che i registi che firmano anche scene e costumi siano tutti partiti come scenografi». 

Allora ci spieghi come lavora uno scenografo.

«Ovviamente il primo contatto è con il regista, ma non immaginatevi discussioni interminabili: a volte bastano un pranzo o un pomeriggio. Le idee vengon fuori così, estemporaneamente. Vuol sapere come è nato il cilindro che dominava il palco nell’Otello di Graham Vick del 2001 diretto da Riccardo Muti? Eravamo a tavola e Vick disse: “La scena deve essere come una lattina di Coca Cola”.

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Poi c’è la fase della progettazione, che dura circa sei mesi: si costruisce lo sviluppo architettonico, si realizzano i bozzetti. In un secondo tempo ci si trasferisce in laboratorio, dove prendono corpo le scene: per me è il momento più importante, perché se lì fai una scelta sbagliata, lo spettacolo risulterà sbagliato. Un lavoro immane, per il quale non ci vengono nemmeno calcolati i contributi. Infine ci sono le prove in sala e in palcoscenico. Se si ha la fortuna di lavorare tanto, capita di portare avanti contemporaneamente più spettacoli: mentre ne progetti uno, l’altro è già in preparazione nei laboratori, e un terzo è montato in teatro. Bisogna essere delle macchine da guerra e avere una salute di ferro».

Leila Fteita Il giocatore

Quella Madama Butterfly con Hermanis alla Scala

Quali sono stati i suoi primi lavori come titolare?

«Sono partita nel 1992, grazie all’allora direttore artistico della Scala Paolo Arcà, con un balletto interpretato dai danzatori della scuola: La bottega fantastica. Realizzai scene e costumi, l’impianto scenografico era da 7 dicembre. L’anno dopo feci Il Grande Gatsby per il Corpo di ballo. Da lì non mi sono più fermata».

Quali sono le collaborazioni a cui è più affezionata?

«Certamente quella col regista e scenografo Alvis Hermanis alla Scala. Ci siamo incontrati nel marzo 2016, quando gli ho fatto da assistente per I due Foscari con Placido DomingoMi ha poi richiamato per il 7 dicembre dello stesso anno con Madama Butterfly, e in quell’occasione abbiamo cofirmato la scenografia, tutta pannelli e pareti scorrevoli la cui fattura si ispirava alle geometrie delle tele di Mondrian e con la casa di Cio-Cio-San su tre piani. È un peccato che il sovrintendente Meyer non l’abbia più chiamato. Ma mi piace citare anche l’anno verdiano (stagione 2000/2001), sempre alla Scala: Muti diresse molte opere del compositore su cui avevo messo lo zampino». 

Regia? No grazie

Recentemente ha vinto due premi.

«Il Premio Abbiati per scene e costumi di Il Giocatore di Prokof’ev al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, regia di David Pountney (2022): ho costruito una grande roulette “scomposta” e sghemba, sulla quale agivano i cantanti, con uno specchio in alto che rifletteva i loro movimenti. È un riconoscimento importante, di cui vado fiera.

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Nel 2024, invece, mi hanno attribuito il Premio “Bacco dei Borboni” per l’artista più popolare dell’edizione in corso del festival di Martina Franca, dove ho curato scene e costumi di Norma e di La lampada di Aladino di Nino Rota. I due spettacoli erano collegati simbolicamente da un grande muro a “onda”, con crepe su cui venivano proiettati giochi di luci e video per Norma, e che ruotando si trasformava in un’imponente libreria bianca, tutta in scultura, per l’allestimento di Aladino».

Prossimi progetti?

«Sto consegnando un Così fan tutte, scene e costumi, per l’Opéra di Liegi, dove due anni fa ho già fatto Il Barbiere di Siviglia, che è andato molto bene ed è stato preso anche da Bilbao, dove verrà rappresentato prossimamente. Il regista è Vincent Dujardin: arriva dalla prosa e ha debuttato nell’opera proprio con me».

Tra tutti questi impegni, riesce anche a insegnare

«Da un decennio curo il laboratorio di scenografia allo Iulm. Il mio è un mestiere che non si impara sui libri, è fondamentale trasmettere ai giovani le proprie esperienze. Mi piace stare in mezzo a loro, è come avere a che fare coi miei figli».

Ha mai pensato di fare il grande salto verso la regia?

«Me l’hanno chiesto in tanti, ma ho sempre detto di no. Non ne sento l’urgenza, a me piace il lavoro di scenografa, che alimento con il bagaglio culturale accumulato negli anni grazie alla mia passione per l’arte, la pittura, l’architettura. In Italia c’è la maggior parte del patrimonio artistico mondiale, è molto facile sentire l’energia dell’arte perché ci viviamo dentro». 

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Nelle foto dall’alto, Leila Fteita alla Scala: nel 2016 al lavoro con Alvis Hermanis dietro le quinte di Madama Butterfly; 2025: la ricostruzione fatta da Leila Fteita delle scene di Ezio Frigerio per lo storico allestimento di Falstaff firmato da Giorgio Strehler; sul palcoscenico © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala | Così fan tutte, regia Chiara Muti, Alessandro Lai costumi, Vincent Longuemare luci © Silvia Lelli | Tre spettacoli al Festival della Valle d’Itria per i quali Leila Fteita ha firmato scene e costumi: Norma (regia di Nicola Raab 2024); Le Jouer (regia di David Pountney, 2022), Aladino e la lampada magica (regia Rita Cosentino, 2024)



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