Una clamorosa protesta dei Magistrati

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Dopo l’imbarazzo per il caso Almasri, che appena rilasciato è stato generosamente ricondotto con un volo di Stato in Libia, Giorgia Meloni ha deciso di passare all’attacco. Martedì 28 ha pubblicato un video sui suoi canali social dolendosi di aver ricevuto, assieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e al sottosegretario Alfredo Mantovano, un “avviso di garanzia” per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio di Almasri. Nel video attacca il procuratore della Repubblica di Roma, Francesco Lo Voi. È bene rammentare che la Costituzione non prevede l’immunità per il presidente del Consiglio e per i ministri in relazione ai reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Per questo tipo di reati la legge costituzionale n.1/89 ha previsto delle speciali garanzie procedurali e politiche a tutela della delicatezza delle funzioni svolte. In particolare è stato sottratto al Pubblico ministero il potere di svolgere le indagini preliminari, lo stesso è stato attribuito a un organo collegiale, il Tribunale dei ministri, composto da tre magistrati in servizio nei tribunali del distretto estratti a sorte.

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L’art. 6 della legge costituzionale prevede che, dopo aver ricevuto una denuncia “il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di quindici giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio (..), dandone immediata comunicazione ai soggetti interessati perché questi possano presentare memorie al collegio o chiedere di essere ascoltati.” Si tratta di una disposizione che pone un privilegio processuale a favore dei ministri, che, a differenza dei comuni cittadini, devono essere immediatamente avvisati della esistenza di un’indagine a loro carico. Il procuratore della Repubblica di Roma si è attenuto alla procedura prevista dalla legge e non avrebbe potuto fare altrimenti. Qui siamo al di là delle ormai usuali aggressioni alla magistratura quando emette provvedimenti sgraditi al governo: quella rivendicata da Giorgia Meloni è una arrogante pretesa di immunità dalle regole costituzionali dello Stato di diritto. Il coro di insulti alla magistratura, che ha fatto seguito alle esternazioni di Meloni, ha invocato a gran voce la riforma costituzionale della giustizia come rimedio indispensabile per sanare questa situazione.

In questo modo dai pasdaran della Meloni viene fuori l’interpretazione autentica dello scopo della riforma “epocale” della giustizia: mettere fine allo scandalo del “potere diviso”. Questi sviluppi danno ragione del grido d’allarme lanciato dall’Associazione nazionale magistrati in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. Quest’anno le cerimonie sono state caratterizzate da una clamorosa protesta dei magistrati che si sono presentati in toga con una coccarda tricolore, ciascuno di loro esibendo la Costituzione. I magistrati hanno platealmente abbandonato l’aula quando ha preso la parola un rappresentante del governo e hanno esposto cartelli con la celebre frase di Calamandrei: “Se volete andare in pellegrinaggio dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne, nelle carceri, nei campi, dovunque è morto un italiano per riscattare la nostra libertà, perché è lì che è nata questa nostra Costituzione”. L’esibizione della Carta e il richiamo a Calamandrei mettono platealmente in evidenza che nella riforma costituzionale Nordio-Meloni sono in gioco principi supremi che attengono alla nostra libertà. Non è un’esasperazione polemica perché la riforma manomette uno dei capitoli fondamentali della Costituzione che definisce l’identità della Repubblica e il perimetro dello Stato di diritto.

Il Titolo IV della Costituzione sull’ordinamento giurisdizionale scolpisce, in modo molto più organico e completo che in altre Costituzioni moderne, il principio della separazione dei poteri, creando uno zoccolo duro di pluralismo istituzionale che non può essere superato. Lo scandalo del “potere diviso” non è stato mai digerito e ha dato luogo a crescenti tensioni fra mondo politico e magistratura che hanno raggiunto l’apice con la lunga e contrastata stagione dei governi Berlusconi. Ma l’esigenza di rendere l’esercizio della giurisdizione subordinato all’indirizzo politico era emersa già nel 1981 con la scoperta del “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Il Piano enunciava una profezia nera di sovversione delle istituzioni democratiche, che, ai nostri giorni, Meloni e compagni si stanno impegnando attivamente ad attuare. La clamorosa protesta dei magistrati ci segnala che la riforma del sistema costituzionale che garantisce l’indipendenza del giudiziario non ha nulla a che vedere con la giustizia ma esprime soltanto l’insofferenza del potere politico nei confronti del controllo di legalità e ne smaschera la pulsione autoritaria.

in “il Fatto Quotidiano” del 31 gennaio 2025



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