La regina d’Egitto | il manifesto

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Mezzo secolo fa, 5 febbraio, giorno del funerale, più di tre milioni di persone affollano le strade del Cairo e il feretro, sollevato e portato di mano in mano, impiega tre ore, a percorrere i pochi metri tra moschea e cimitero; il bagno di folla tributato alla salma è, nella storia dell’Islam, secondo solo a quello di Nasser, padre dell’Egitto moderno, l’uomo che sa «sfruttare» l’immagine «nazionalista» panaraba della cantante Umm Kulthum (4 maggio 1904-3 febbraio 1975) della quale risulta attento e passionale estimatore. Del resto, tra gli anni Cinquanta e Settanta, dal Marocco all’Iraq, la frase «a parte Allah l’unica cosa su cui tutti gli arabi sono d’accordo è Umm Kulthum» è al contempo proverbiale, veritiera, rivelatrice.

Umm Kulthum – scritta anche Oum Kalsoum- pseudonimo di Fatima Ibrahim al-Biltagi, resta un simbolo assoluto per le genti arabe di religione musulmana, ma è poco nota in Europa: in Italia, ad esempio, va menzionato Ti ho amata per la tua voce, romanzo di Sélim Nassib ispirato all’artista e poi l’unico saggio importante: Umm Kulthum. Icona del modernismo arabo, mito per la contemporaneità (2006) di Stefano A.E. Leoni per il volume collettivo La voce (dispensa dell’Università Cattolica). Forse per la cantante è arduo riconoscere un analogo pendant «occidentale» sia oggi sia nel corso del XX secolo, per ragioni tanto sociali quanto antropologiche.

In tal senso, ne L’infelicità araba (1975), a giorni dalla tragica scomparsa, il libro-chiave di Samir Kassir, ispiratore della cosiddetta «primavera di Beirut», è descritta l’intensa complicanza tra modernità, cultura araba, arti occidentali, trovando nei film (musical egiziani compresi) e nelle canzoni i linguaggi elettivi della nuova contemporaneità panarabica: «Senza avere i risvolti politici del teatro – a parte talune eccezioni – e a dispetto delle apparenze, una forma d’arte così popolare come la canzone si inscrive, persino lei, nel processo di occidentalizzazione. Con una scelta molto felice, si resta lontani, fino alla fine del XX secolo, dallo standard occidentale dei tre minuti, benché il 45 giri avesse già obbligato ad abbreviare i testi. La portata dell’influenza occidentale trapela persino dalla ‘qasida’, il poema lungo, riportato in auge dalla voce inconfondibile di Umm Kulthum: i testi si rifanno alla poesia rinnovata – anche se non ancora rivoluzionaria – degli anni Venti e Trenta; la musica, pur conservando il quarto di tono, si avvale, dopo Sayyid Darwish, di un’orchestrazione nuova, violini e violoncelli diventano gli strumenti fondamentali della nuova musica araba, in attesa della chitarra elettrica che all’inizio degli anni Settanta farà da accompagnamento, pure lei, a Umm Kulthum».

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I PRIMI PASSI
Kulthum è in tal senso simbolo della Nahda (rinascimento arabo novecentesco) e, per perpetuare il proprio mito, riesce a giostrare fra moderato rinnovamento, pacifico panarabismo, fluido amalgama fra tradizione e modernità che l’Egitto mette a sua disposizione. L’Astro d’Oriente o la Callas del Cairo – come viene chiamata – diventa altresì pioniera nell’uso di tecnologie e comunicazione che il XX secolo offre ai personaggi pubblici. E si tratta di un fenomeno mediatico che percorre cinquant’anni di storia araba, avvalendosi della coincidenza tra gli sviluppi della discografia, del cinema, della radio, della televisione; proprio nell’anno della nascita della cantante prende avvio l’industria del disco mediorientale prima in Egitto (Odeon, Gramophone), poi in Libano (Baidaphon).

Umm, nata in un piccolo borgo rurale della regione del Delta del Nilo, figlia dell’imam della locale moschea, introdotta a scuola alla salmodia coranica e all’innodia religiosa, interpreta canzoni islamiche in diverse cerimonie dove, in veste di ragazzo, segue il padre, che in questo modo integra il modesto reddito proveniente dall’incarico religioso. La voce della ragazza insolitamente potente, poderosa, tecnicamente ineccepibile, viene subito apprezzata, ragion per cui sembra logico il trasferimento nella capitale, dove l’effettiva carriera musicale matura (1921-1924), raggiungendo la celebrità più tardi via etere, potenziata dall’istituzione della Radio Nazionale Egiziana (1934). Da allora Umm Kulthum è The Voice of Egypt, per rifarsi all’analisi (1997) di Virginia Danielson che dice: «Ha cantato in ogni parte d’Egitto e in buona parte del mondo arabo, ha cantato per celebrare l’intesa tra Siria ed Egitto e per celebrare la caduta della monarchia irachena. Ha cantato per la Palestina, per le donne libiche, per gli operai di Assuan mentre veniva costruita la diga. Ha cantato per il contadino divenuto operaio, costruttore, soldato, uomo smarrito e infelice perché strappato alla naturalità della terra e ognuno di questi personaggi ha riconosciuto la propria sofferenza in quella voce, in quella donna ormai identificata con la patria stessa. La notte del giovedì le orecchie degli arabi ascoltavano solo lei e ancora oggi alle dieci di sera di ogni primo giovedì del mese tutte le radio trasmettono brani di Umm Kulthum: in sua memoria e in memoria dei suoi coinvolgenti e monumentali concerti».

LO STILE
Relativamente pochi i recital in Europa, a uso e consumo di compatrioti emigrati e perlopiù impegnati nella raccolta di fondi per ricostruire l’esercito egiziano dopo la guerra con Israele (1967). A livello stilistico, accanto a canzoni sentimentali, Kulthum si apre a monologhi, mentre dischi, radio e cinema sono i media che ne consacrano la fama, giunta all’apice tra gli anni Quaranta e Sessanta, quando al repertorio romantico tradizionale (canzone breve) si affianca la ughniya, il brano lungo, congeniale al formato ellepì, attraverso un iter evolutivo in puro stile arabo-modernista anche nel passaggio, a livello strumentistico dal piccolo complesso di strumenti tradizionali, alla firma, orchestra araba che mescola oud e violini (fino a una quindicina), come pure il violoncello, il clarinetto e la fisarmonica.

Per diffondere il verbum della vocalist c’è anzitutto la radiofonia, mezzo di propaganda sapientemente utilizzato, a partire dal presidente Nasser (1952-1970). La radio trasmette i concerti del primo giovedì del mese, così come i proclami del capo politico, sovente relazionati appena prima della programmazione dello show; per tutti gli anni Cinquanta in Medioriente corre voce che esistano due soli grandi leader, Nasser e Umm Kulthum. E per quei concerti del giovedì arrivano al Cairo, con voli charter, facoltosi fan dal Nord Africa e dalla Penisola Arabica; e «l’ambasciatrice delle arti arabe» è anche icona riconoscibile e fedele a se stessa: immancabile fazzoletto in mano, agitato nel corso dell’esecuzione, fedeli occhiali da sole a celare lo sguardo, vestito lungo aderente, capelli raccolti a chignon, orecchini e girocollo di perle.

Nell’ultimo decennio di attività, fino a metà anni Settanta, l’artista egiziana avvia una feconda collaborazione con il modernista Abdel Wahab, il quale per lei compone dieci canzoni, musicate inserendo ritmi persino ammiccanti al pop americano, con l’ingresso di tastiere e chitarra elettrica: e fra tutte spicca Etna muri (Tu sei la mia vita), forse la melodia più popolare di Umm, insieme a Al-Atlaal. Ma l’intera enorme discografia della cantante – riassumibile nei 5 album La Diva (1998) per Emi Arabia – è degna d’attenzione, come già sottolinea in tempi non sospetti Lenny Kaye, chitarrista, producer, scrittore newyorkese, nel Patti Smith Group d’esordio e primo a coniare il termine punk rock a proposito di alcune garage band, il quale considera Kulthum la musicista preferita.



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