Può la Commissione Ue finanziare chi promuove le sue politiche? Io vedo un conflitto di interessi

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C’è qualcosa che non torna nel “grande racconto” della transizione ecologica europea. Non tanto e non solo per i contenuti – sui quali si potrebbe discutere all’infinito – quanto piuttosto per il metodo. O meglio, per quel peculiare intreccio di interessi che sta dietro alla narrazione dominante sul clima e l’ambiente.

La notizia è di quelle che dovrebbero far riflettere: stando al giornale olandese De Telegraf, la Commissione europea, sotto la gestione dell’ex commissario Franz Timmermans, ha elargito centinaia di migliaia di euro a organizzazioni ambientaliste al fine di fare pressioni, a livello nazionale e comunitario, a favore del cosiddetto “green deal”.

Non serve essere esperti di psicologia sociale per comprendere come funziona il meccanismo. Lo ha spiegato magistralmente Robert Cialdini nel suo celebre Le armi della persuasione: il principio di reciprocità è uno dei più potenti condizionamenti del comportamento umano. Chi riceve un beneficio si sente in dovere di ricambiare, anche inconsciamente. È un automatismo attivo nelle piccole cortesie quotidiane come nelle grandi dinamiche sociali. Ma nel caso in esame il meccanismo funziona “al quadrato”, per così dire, o se preferite come un circuito vizioso auto-alimentantesi. Infatti, abbiamo una istituzione pubblica che finanzia di nascosto soggetti privati affinché questi condizionino il dibattito sulle strategie di “governance” (e addirittura sulle correlate decisioni politiche locali e internazionali!) proprio grazie alle risorse ricevuta da chi governa.

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Dopo di che, non conta quanto radicali o irrealistiche possano essere le proposte: l’importante è mantenere alta la tensione emotiva, alimentare l’allarme, spingere per misure sempre più drastiche. Il tutto condito con quella retorica dell’emergenza che mal si concilia con un approccio razionale e ponderato sulle reali priorità ambientali.

La questione assume contorni ancora più inquietanti se si considera il quadro normativo europeo. L’art. 15 del TFUE sancisce che le istituzioni dell’Unione devono operare nel modo più trasparente possibile, mentre l’art. 298 stabilisce che, nell’assolvere i loro compiti, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione europea “aperta”, “efficace” e “indipendente”. Principi cardine che sembrano però dissolversi nella nebbia quando si parla di politiche ambientali europee, laddove le decisioni rischiano di essere prese in un contesto di opacità e conflitti d’interesse. Vi è poi l’art. 191 del TFUE che stabilisce i principi fondamentali della politica ambientale dell’Unione basati sui principii di “precauzione” e “azione preventiva”: anche l’attuazione pratica di tali politiche dovrebbe seguire criteri di trasparenza e indipendenza, non condizionati da interessi economici precostituiti.

Il sistema di finanziamenti denunciato dal quotidiano olandese crea una sorta di bolla autoreferenziale: chi sta “dentro” al circuito dello storytelling governativo viene pagato per applaudire e condizionare, chi sta fuori viene delegittimato come “negazionista” o peggio. Non importa quanto fondate possano essere le critiche o quanto autorevoli le voci del dissenso: il format è ormai oliato e si auto-riproduce oltre ad “auto-proteggersi”. La vicenda mi ricorda da vicino quanto accaduto durante la pandemia, con Big Pharma e le sue ramificate connessioni con enti regolatori, società scientifiche e media mainstream. Anche in quel caso, il principio di reciprocità ha giocato un ruolo cruciale nel plasmare la narrativa dominante.

La domanda che sorge spontanea è: può un’istituzione pubblica come la Commissione europea permettersi di finanziare, per di più “riservatamente”, delle organizzazioni affinché promuovano (alla stregua di un qualsiasi prodotto) le sue politiche? Non si tratta forse di un palese conflitto di interessi che mina alla base la credibilità dell’intero processo decisionale?

La transizione ecologica è una sfida troppo importante per essere lasciata in ostaggio a questo intreccio di dubbia opportunità. Servono trasparenza, indipendenza e soprattutto un dibattito scevro da condizionamenti economici. Altrimenti rischiamo che il “green deal” si trasformi nell’ennesima operazione di facciata, buona per la propaganda ma deleteria per i popoli europei.
È tempo che qualcuno a Bruxelles si ponga il problema. Prima che sia troppo tardi e che il “green reset” si trasformi (ammesso che già non lo sia) in un danno (o, peggio, in un inganno) perpetrato sulla pelle dei contribuenti del Vecchio Continente.
Parafrasando l’art. 17 del TUE sul principio di leale cooperazione, anche le questioni ambientali meritano di essere affrontate nel rispetto reciproco tra le istituzioni e gli Stati membri (nonchè tra questi ultimi e i loro cittadini) e non secondo logiche di convenienza politica, economica o, peggio ancora, “ideologica”.



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