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15 aprile 1964, la quiete di via Montenapolene diventa guerriglia urbana. Nasce una nuova criminalità, militare e brutale. Il suo “uomo d’oro” è Albert Bergamelli.
L’aprile del 1964 è un periodo che mi è particolarmente caro. È il mese in cui sono nato, e anche il mese in cui (spero casualmente) nasce una Milano violenta, a mano armata, spietata. L’abbiamo vista in tanti film. L’abbiamo raccontata nelle storie dedicate a Renato Vallanzasca e Francis Turatello.
Alcuni di noi l’hanno almeno in parte vissuta e ricordano ancora, almeno incosciamente il clima di una città che non era la vecchia e buona Milano di una volta. Ma un posto dove potevano spararti, o rapirti, o più semplicemente potevi finire in mezzo al fuoco incrociato di una sparatoria, magari di una battaglia stradale come l’assalto all’Ufficio delle Imposte di Via Manin.
Con tutti i problemi della Milano di oggi, che in buona parte detesto, gli anni ‘60 e ‘70 di questa piccola Chicago padana, non sono stati di sicuro più tranquilli.
Una rapina simbolo in un luogo simbolo
Quel clima, che precede gli anni di piombo, in cui le pallottole volavano generosamente e spesso uccidevano, non nasce nelle periferie degradate, tra i palazzoni del Giambellino e di Lambrate.
Esplode improvvisa, un pomeriggio, nel centro di Milano. In un luogo in cui anche noi, della Banda di Boomerissimo, amiamo spesso passeggiare, osservando con raccapriccio un’umanità tanto azzimata e ben munita di denaro quanto spesso povera di stile.
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Scivoliamo tra quelle vetrine lucide, a volte a caccia di una mostra o dell’ispirazione per un’articolo (tanta della storia di Milano si dipana in quella ragnatela di stradine, a volte ricchissime, a volte un po’ più normali, che si diramano da Piazza San Babila).
È difficile pensare che tra quelle strettoie, ultime testimoni urbanistiche di una Milano premoderna, un giorno sia esplosa una battaglia, pianificata come un attacco militare. Era il debutto di una figura che tra crimine, droga, evasioni, trame oscure e oscurissime, avrebbe lasciato la sua impronta, nei lunghi anni a venire: Albert Begamelli, il leader di una banda ancora al debutto: il Clan dei Marsigliesi.
Dalle rapine romantiche all’attacco militare
Prima di quel giorno di aprile Milano era stata una città che non si può definire tranquilla, ma in cui la criminalità aveva un suo codice. Stava perlopiù nell’ombra, era la “ligera” dei piccoli furti e dei piccoli traffici, dello sfruttamento della prostituzione, della ricettazione. Anche delle rapine, a volte, ma perlopiù rapine romantiche, di abilità e di destrezza. Rapine come quella di Via Osoppo del 1958, un colpo di prestigio eseguito da una compagine raccogliticcia degna di un film: un ex partigiano, “jess il bandito”, “nando il terun”, Luciano De Maria “la mente”, sette uomini che fecero sparire 570 milioni da un furgone portavalori, immobilizzato in mezzo alla strada, senza sparare un colpo.
Il salto di qualità: 120 secondi di fuoco
In questo scenario ancora rustico, fece improvvisamente irruzione Albert Bergamelli: un oriundo italiano naturalizzato criminale in Francia, che dall’angiporto di Marsiglia e dai suoi traffici illeciti aveva deciso di allargare il suo giro d’affari all’Italia, puntando al bersaglio grosso: Milano. Città opulenta, col suo ventre carico d’oro, e l’ombelico in Via Montenapoleone.
Là, al numero 12, in un palazzo storico dal sapore rinascimentale che oggi ospita il flagship store di Hermes, nel 1964 c’era una gioielleria che sarebbe un eufemismo definire importante: la Gioielleria Colombo. Una pecora grassa, dal vello d’oro, bersaglio ideale per un branco di lupi affamati e a loro modo innovativi.
Alle 16:30 in punto quattro Alfa Romeo Giulia identiche sbucarono all’improvviso bloccando il traffico in quattro punti strategici del Quadrilatero: Via Montenapoleone Via Verri, Via Sant’Andrea: in un attimo, la preda dorata e il suo tesoro erano isolate.
Quattro uomini mascherati e armati fino ai denti fecero irruzione nella gioielleria. Avevano in pugno mitra e pistole. E tanto per essere chiari, cominciarono immediatamente a sparare. A Milano non si era mai visto qualcosa del genere: raffiche, vetri in pezzi, urla. La pigra, elegante e silenziosa Via Montenapoleone in pochi istanti era già preda del panico.
Uno dei rapinatori piazzato all’esterno del palazzo “copriva” come in un attacco militare i compagni che facevano razzia nelle vetrine, afferrando tutto: orologi preziosi, collane di diamanti, anelli con pietre rare: in pochi secondi nei loro sacchi c’era un tesoro del valore di 350 milioni di lire dell’epoca. Una cifra mostruosa (anche se non superiore al record di Via Osoppo, che rimase per lungo tempo imbattuto).
Alla brutalità dell’azione seguì una fuga dallo stile per certi versi opposto: auto “pulite” pronte al cambio li aspettavano in Corso Venezia, Via Pindaro e Porta Venezia.
I rapinatori scappavano su un’auto, la fermavano di traverso in mezzo alla strada, fermando l’inseguimento della polizia e saltavano su un’altra. La scena si ripeté in una sequenza degna di Bullit, che si concluse quando i rapinatori si dileguarono definitivamente e sparirono.
Un piano talmente ben riuscito che ancora oggi non è chiaro quanti siano stati i delinquenti a far perdere le proprie tracce: sette secondo alcune ricostruzioni, otto per altre. A oltre 60 anni di distanza non se ne è ancora venuti del tutto a capo.
Il sale sulla coda
Un attacco del genere, nel cuore industriale e sociale di quell’Italia che stava esplodendo nel boom, non era tollerabile.
Fu mobilitata l’Interpol, furono spremuti gli informatori, e proprio da qui, da quella malavita locale che aveva subito l’invasione dei marsigliesi, arrivarono le prime soffiate, i primi dettagli che permisero di arrivare a Bergamelli.
Si scoprì che il capo della banda era un francese, evaso da poco dal carcere di Melun (la sua prima ma non ultima evasione), e soprattutto che da Milano si era rifugiato a Torino. Le fotografie di tutti gli evasi furono stampate e distribuite in tutta la città.
Alla fine i dettagli e le testimonianze che arrivavano goccia dopo goccia alla polizia permisero di restringere il cerchio e arrivare a Bergamelli, che otto giorni dopo la rapina fu arrestato in circostanze rocambolesche in un bar di Porta Nuova. Si nascondeva nella folla, in una delle zone più affollate e frequentate della città.
La condanna fu dura per l’epoca: oltre 8 anni di carcere. Ma Bergamelli e i suoi, eletti a Robin Hood moderni, diventarono assurdamente beniamini della stampa, strani eroi popolari. Un fenomeno patologico che l’Italia cominciò a scoprire, anche in questo caso per la prima volta, in quel 1964.
Sarebbe capitato ancora, col “Bel René”, con terroristi sanguinari che chissà perché ogni tanti riescono a toccare la fantasia delle folle. E spesso, vai a sapere perché, del pubblico femminile.
Albert Bergamelli era diventato una specie di influencer criminale ma, almeno per il momento, restava dietro le sbarre. Si chiudeva per lui un capitolo di storia criminale italiana.
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Non sarebbe passato molto tempo prima che altre, e ancora più oscure pagine del Marsigliese, si riaprissero. Saltiamo per ora all’ultima: Albert Begamelli è morto il 31 agosto 1982 nel carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno, ucciso da un colpo di coltello da caccia alla gola, mentre si trovava in uno stanzone con altre 18 persone.
La carriera criminale di un gangster, esplosa alla luce delle vetrine, si chiudeva nel buio di un altro mistero.
Antonio Pintér – Copyright Boomerissimo.it
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