Santa Fe, ufficialmente “cattolica” per Costituzione?

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Santa Fe, ufficialmente “cattolica” per Costituzione?

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La provincia argentina di Santa Fe riforma la Costituzione inserendo il cattolicesimo come religione ufficiale, mentre l’arcivescovo chiede assenza di privilegi e laicità. Il commento del filosofo Luigi Baldi.


 

Il Senato della provincia di Santa Fe (Argentina) ha approvato nel dicembre scorso la Riforma Costituzionale.

Tra gli altri punti, la Costituzione prevede che la religione cattolica sia dichiarata religione ufficiale della provincia e che ottenga per questo una «più decisa protezione».

La riforma ha generato un dibattito pubblico nel quale è intervenuto anche l’arcivescovo di Santa Fe, mons. Sergio Fenoy, il quale ha ribadito «la giusta autonomia e cooperazione dell’ordine temporale rispetto all’ordine religioso», respingendo una dichiarazione formale di “cattolicità” della Provincia e richiedendo invece un «riconoscimento della Chiesa nella pluralità, senza privilegi».

Su questo pubblichiamo la riflessione del filosofo Luigi Baldi, collaboratore di UCCR.

 


di Luigi Baldi*
*docente di Filosofia presso l’Istituto Teologico affiliato di Genova

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Il progetto di riforma costituzionale della provincia argentina di Santa Fe, che la qualificherebbe come “cattolica, apostolica e romana” ha aperto una discussione che tocca da vicino un nervo scoperto nella sensibilità di una parte, almeno, del mondo cattolico.

Ovvero, il problema del rapporto tra confessionalità dello stato e libertà religiosa.

 

Il problema della confessionalità di Stato

In linea di principio non esiste un impedimento all’idea che uno Stato o una provincia sia dichiarata formalmente cattolica, purché siano salvaguardati i diritti della persona umana e il principio dell’uguaglianza nella dignità di tutti gli esseri umani.

Alcuni ambienti cattolici legano la confessionalità dello Stato al principio della regalità, non solo spirituale, ma anche sociale di Cristo, affermato da Leone XIII nell’enciclica Tametsi futura del 1900 e ripreso da Pio XI nell’enciclica Quas primas del 1925 e posto alla base della festa di Cristo re.

L’idea che il Vangelo debba ispirare anche la vita pubblica dell’uomo, quindi le istituzioni sociali e politiche non significa, però, che lo Stato debba privilegiare la Chiesa Cattolica, discriminando o perseguitando le altre confessioni religiose.

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Il Magistero cattolico e la libertà religiosa

Come insegna il Magistero della Chiesa, la libertà religiosa, come libertà della volontà ispirata al giudizio della coscienza di non essere costretti o impediti in materia religiosa, appartiene inscindibilmente alla dignità della persona umana e ne è anzi il presupposto fondamentale.

La coscienza, insegna la Gaudium et spes (GS,16) è «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità».

Non è lecito a nessuno, quindi ancora meno allo Stato, coartarla: «La coscienza è l’originario vicario di Cristo, profetica nelle sue parole, sovrana nella sua perentorietà, sacerdotale nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi» e «tutto ciò che è fatto contro la coscienza edifica per l’inferno» (Concilio lateranense IV, 1215).

Paolo VI nel corso di un’udienza pubblica, il 28 giugno 1965, descrivendo la libertà religiosa aveva detto: «Voi vedrete riassunta una gran parte di questa dottrina capitale in due proposizioni famose: in materia di fede che nessuno sia impedito! Che nessuno sia costretto! (“nemo cogatur, nemo impediatur”)».

E’ sulla base del giudizio di coscienza che agisce la volontà umana come libera e responsabile, a cominciare da quanto vi è di più importante, cioè quello che attiene alla salvezza eterna.

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La coscienza ha il compito di riconoscere alla luce di Dio ciò che è bene e ciò che è male, non certamente di deciderlo («Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire…e secondo questa egli sarà giudicato» (GS,16).

Non è, però, in questione qui il primato della verità o dell’indifferenza religiosa, come alcuni padri conciliari sostennero durante la discussione delle bozze della Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae, bensì, appunto, la dignità della persona umana, creata “a immagine di Dio” e redenta da Cristo.

La Chiesa, del resto, ha sempre insegnato, anche se non sempre gli uomini di Chiesa hanno agito coerentemente, che nessuno può essere costretto a credere da un “braccio secolare”.

Il compito della comunità politica è quello di promuovere il bene comune e costruire la città dell’uomo, ispirandosi ai supremi principi della legge naturale, che hanno nella promozione della persona umana il loro criterio direttivo.

 

Riconoscimento ma senza imposizione

Nihil obstat (nessun impedimento), dunque, all’inserimento in Costituzione di un riferimento alla cattolicità o, anche a Dio, come all’inizio lo stesso Giorgio La Pira aveva proposto all’Assemblea Costituente (salvo ritirare la proposta dinnanzi al dibattito che ne era scaturito, perché Dio per definizione non può essere divisivo).

Occorre, però, che sia chiaro a tutti, una volta per tutte, che il Vangelo non si impone con la forza pubblica. Gesù non ha imposto nulla ad alcuno: il suo motto è «se qualcuno vuole venire dietro di me» (Mt 16,24) e in croce è salito Lui per la salvezza di tutti, senza mandarvi nessuno.

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Eppure viviamo tempi, tra relativismo e fondamentalismi vari, in cui dovrebbe essere chiara la differenza tra imporre la verità e testimoniarla. Come insegna San Tommaso il verum è una proprietà trascendentale dell’essere e non una categoria dell’intelletto a disposizione dell’uomo, men che meno un’arma da scagliare contro il nemico.

I vescovi, insomma, forse anche memori di un tradizionale ed equivoco “connubio” tra gerarchia ecclesiastica e istituzione militare in Argentina, hanno ragione a mettere in guardia contro tentazioni “indietriste”.

Non è nel riesumare l’alleanza “trono (quale poi sarebbe?)-altare” che si troverà un rimedio all’indubbio sfacelo culturale e morale del nostro mondo “occidentale”.



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