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Abiti e abitudini: non si tratta solo di moda in senso stretto, ma di una “moda” di comportamento diffusa, quella dei resi online.
Questa pratica, esplosa durante la pandemia, ha avuto un impatto ambientale significativo. Ogni anno, enormi quantità di prodotti vengono acquistati, restituiti e spesso distrutti, generando rifiuti e aumentando le emissioni di CO2. Il fast fashion è tra i principali responsabili, ma anche elettronica e cosmetici contribuiscono all’inquinamento.
È urgente adottare nuove tendenze di consumo più consapevoli per ridurre l’impatto ambientale di questa abitudine ormai consolidata.
Abiti e abitudini
I “Gemelli diversi” del fenomeno resi online
Il camerino itinerante
Resi online: diamo i numeri (?!)
Fast fashion ma non solo
Nuova moda cercasi
Abiti e abitudini
Non è soltanto una questione di passerelle (davanti allo specchio della propria camera da letto, peraltro), o di moda nell’accezione di capi di abbigliamento.
È molto di più: è la moda che la Treccani definisce come “fenomeno sociale che consiste nell’affermarsi, in un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale, di modelli estetici e comportamentali, e nel loro diffondersi via via che ad essi si conformano gruppi, più o meno vasti, per i quali tali modelli costituiscono, al tempo stesso, elemento di coesione interna e di riconoscibilità rispetto ad altri gruppi”.
Diffusasi rapidamente “ai tempi del Covid”, la “moda dei resi” è diventata un comportamento standard per molti, troppi consumatori.
La “moda dei resi” è diventata, oggi, un’abitudine. Ma non un’abitudine come un’altra: la sua esplosione ha avuto un enorme impatto ambientale.
Partendo dal mondo del fast fashion, allargheremo il nostro sguardo a tutti quei settori nei quali il reso dei prodotti è un “trend secolarizzato”. Che, più di altri, contribuisce all’inquinamento.
I “Gemelli diversi” del fenomeno resi online
Nelle pagine della nostra rivista abbiamo spesso parlato bene della digitalizzazione, e degli effetti benefici che può avere sull’ambiente: la “Twin Transition”, la “transizione gemella” che combina la digitalizzazione con la decarbonizzazione (e, più in generale, con la salvaguardia degli aspetti ambientali) è ormai entrata a far parte del “linguaggio comune”, in un mondo in cui il cambiamento climatico e il peggioramento delle condizioni ambientali rappresentano una minaccia esistenziale, e in cui tutti (cittadini, aziende e istituzioni) sono chiamati ad un cambio di paradigma per promuovere uno sviluppo economico sostenibile.
Ma c’è un altro utilizzo del digitale che ormai da troppo tempo sta provocando dei danni all’ambiente, quello legato al boom dell’e-commerce, gemello diverso del digitale a servizio dell’ambiente.
Pur di vendere ed ingraziarsi il “customer”, infatti, il mondo del commercio online ha adottato tecniche che hanno rapidamente trasformato:
- non solo il modo di acquistare dei consumatori (l’acquisto compulsivo ormai è un benefit, e si è trasformato in un acquisto condizionato alla prova, “comodamente a casa tua”),
- ma anche l’ambiente che ci circonda.
La crescita esplosiva del commercio elettronico, in sostanza, ha portato con sé una cultura del “compra e restituisci” che, se da un lato facilita la vita dei consumatori, dall’altro ha un impatto devastante sull’ambiente.
I resi gratuiti di merce acquistata online sono ormai uno standard per molti retailer, soprattutto nel settore della moda, ma anche in quello dell’elettronica, dei cosmetici e persino degli arredi. Ogni reso comporta non solo l’uso di materiali per l’imballaggio, ma anche un significativo consumo di risorse per il trasporto, con conseguenti emissioni di CO2.
Il camerino itinerante
L’e-commerce, nei fatti, ha trasformato il mondo in un grande camerino: il settore della moda, infatti, è stato uno dei primi ad abbracciare la cultura dei resi online gratuiti, rendendo la pratica quasi inevitabile.
Permettere ai consumatori di provarsi i vestiti direttamente a casa sarà anche una pratica commerciale che invoglia all’acquisto, ma di fatto – sottolinea un recente studio condotto da Greenpeace – ogni anno enormi quantità di abiti vengono prodotti, venduti, resi e spesso distrutti, contribuendo significativamente all’inquinamento globale.
Solo nell’Unione Europea, il consumo di prodotti tessili rappresenta il quarto settore per impatto ambientale e il terzo per consumo di acqua e del suolo. E ciò che è davvero preoccupante è che la maggior parte degli abiti resi non viene rivenduta, ma finisce direttamente in discarica o inceneritore.
Resi online: diamo i numeri (?!)
Nel report si spiega con dovizia di particolari la metodologia utilizzata per calcolare il numero di chilometri percorsi dai resi. Un interessante esperimento di tracking, con tanto di localizzatori bluetooth, appositamente modificati per ridurne la dimensione ed inibirne la possibilità di emettere segnali sonori, che dimostra quanta strada c’è ancora da fare perché si possa parlare di sostenibilità.
Il calcolo dei chilometri percorsi, spiega Greenpeace, è stimato al ribasso “poiché con le informazioni in nostro possesso (soltanto origine e destinazione) si è calcolato il percorso diretto tra i due punti, escludendo di fatto ogni diversione fatta per motivi logistici come, ad esempio, gli itinerari ulteriori per raggiungere centri logistici e di smistamento delle spedizioni o i percorsi urbani seguiti dal corriere nella fase di consegna al cliente”. |
Dall’indagine emergono filiere logistiche complesse, multi-vettore e sostanzialmente omogenee. Ma, soprattutto, numeri allarmanti.
Nei 58 giorni dell’indagine, infatti, è emerso che:
- i 24 capi di abbigliamento oggetto dell’esperimento hanno percorso circa 100.000 chilometri attraverso 13 Paesi europei (inclusa la Svizzera) e la Cina. Giunti “a destinazione”, sono stati venduti e rivenduti complessivamente 40 volte, con una media di 1,7 vendite per capo, e resi per ben 29 volte;
- mediamente, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è di 4.502 km;
- il tragitto più breve è di 1.147 km e il più lungo (ad oggi, visto che il capo non è ancora tornato in possesso della piattaforma) è quello percorso da un abito da sposa (da 38 euro…): 10.297 km;
- ognuno dei capi di abbigliamento spediti dalla Cina ha percorso oltre 10.000 chilometri (principalmente in aereo) e, ad oggi, non risulta ancora rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso;
- un pacco è confezionato con 74 g di plastica e 221 g di cartone;
- lʼimpatto medio del trasporto di ogni ordine e reso è risultato pari a 2,78 kg di CO2 equivalente.
Moltiplicato per il numero di capi quotidianamente venduti, il risultato è impressionante.
Fast fashion ma non solo
Non solo la moda è colpevole: settori come l’elettronica e i cosmetici generano anch’essi un impatto ambientale significativo attraverso i resi.
Il meccanismo è lo stesso.
L’elettronica di consumo è uno dei settori in cui i resi hanno un impatto devastante. I prodotti elettronici, una volta restituiti, spesso non possono essere rivenduti come nuovi a causa dei segni d’uso o dei requisiti di sicurezza. Di qui la necessità di smaltire questi oggetti, che contengono materiali tossici e difficili da riciclare.
Il settore della bellezza e dei cosmetici è un altro esempio lampante. Molti prodotti restituiti non possono essere rimessi in commercio per motivi igienici e di sicurezza, finendo per essere scartati senza possibilità di riciclo. Questo genera sprechi inutili e contribuisce all’aumento dei rifiuti plastici, data l’ampia presenza di confezioni in plastica nei cosmetici.
Nuova moda cercasi
Se i resi sono diventati una moda, è ora di introdurre nuove tendenze che possano ridurre il loro impatto. Le aziende e i consumatori possono fare molto per invertire questa rotta e rendere il processo più sostenibile.
In alcuni Paesi europei sono state introdotte norme sui resi all’interno di normative antispreco (come la legge “anti-gaspillage” in Francia), e alcune aziende stanno sperimentando soluzioni come la riparazione e il ricondizionamento dei prodotti restituiti per ridurre gli sprechi.
Ma non basta: anche i consumatori possono fare la differenza adottando un comportamento più consapevole, basato su tre principi:
- think before buy (pensare prima di acquistare, per valutare attentamente se un prodotto è davvero necessario);
- avoid impulse purchases (evitare acquisti impulsivi, per ridurre la probabilità di dover restituire un articolo che, con il senno di poi, risulta non essere necessario, gradito o funzionale);
- choose susteinable products (scegliere prodotti sostenibili: optare per articoli di qualità e durevoli che riducono la necessità di resi).
Ma per fare ciò occorre una sostenibilità di cui non si parla mai – la cultura – e ambasciatori in grado di veicolare messaggi di moda sostenibile.
Tutti noi, perché non si finisca per fare la fine dei personaggi della storia raccontata da Charles Osgood:
“C’era un lavoro importante da fare e ad ognuno fu chiesto di farlo…
Ognuno era sicuro che qualcuno l’avrebbe fatto….
Ciascuno poteva farlo ma nessuno lo fece…..
Qualcuno si arrabbiò perché era il lavoro di ognuno…
Ognuno pensò che ciascuno poteva farlo…. ma nessuno capi che qualcuno non l’avrebbe fatto.
Finché ognuno incolpò qualcuno perché nessuno fece ciò che qualcuno avrebbe potuto fare…”.
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