Una società con poca cultura è destinata a restare indietro

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per le imprese

 


Giachi*

Di ritorno da una missione del Consiglio regionale della Toscana a San Francisco, accompagnando le start up tecnologiche selezionate dall’assessorato allo sviluppo economico della Regione, il dibattito italiano mi ha accolto con la presentazione del rapporto sulla società italiana del Censis, il 58° e con i cinque nuovi morti sul lavoro nel deposito di Calenzano. È stato un corto circuito disarmante. Spiegherò perché. La Silicon Valley rimane un luogo dove alberga il futuro, con i quartier generale delle big tech come Apple o Nvidia. Le nostre imprese giovani che hanno come obiettivo l’innovazione tecnologica, traggono grande profitto formativo e industriale dal programma regionale che le porta ogni anno a San Francisco, presso Innovit, un centro per l’impresa innovativa impiantato lì dal Ministero degli esteri, nell’ambito del quale la regione Toscana ha una vera e propria ‘casa’ per le imprese del settore. Nei giorni trascorsi con queste imprese, e a incontrare i vertici di aziende come Apple, Nvidia e Open AI abbiamo potuto gettare uno sguardo oltre l’orizzonte che ci separa da un futuro che sarà segnato dall’intelligenza artificiale e dalla velocità di calcolo che la renderà sempre più efficace e performante. Un futuro che spaesa, confonde e dà le vertigini quando se ne colgono le anticipazioni nei taxi senza autista o negli alias virtuali che tengono le riunioni al nostro posto, e che può spaventare se ci fermiamo al macchinismo che ci si mostra. Un futuro, però, che apre anche scenari di opportunità ed evoluzione, quando si rifletta su quanta umanità e sapienza abbia richiesto arrivare sin qui, e richieda interagire con le novità tecnologiche che si preparano. Insomma, ci aspetta un domani nel quale cambieranno i lavori che facciamo, ci saranno nuove opportunità e si perderanno professionalità non più necessarie, e tutto questo avrà un bilancio positivo solo se saremo in grado di cavalcare l’onda di nuove possibilità che ci si dischiude. Serviranno nuove competenze, e capacità di pensiero complesso, ampiezza di vedute e mente aperta. E noi? Il 58° rapporto del Censis sulla società italiana ci consegna un quadro desolante proprio sulle competenze culturali che determinano le condizioni di possibilità di quel futuro che abbiamo descritto. Una società che galleggia in una medietà continua, senza scossoni, che nasconde l’insidia di un’ignoranza crescente soprattutto riguardo alle nostre storia e cultura, cui si accompagna una diminuzione progressiva dei redditi (si calcola del 7%) con perdita di potere d’acquisto che sta sfibrando il ceto medio. Intanto si ingenera un clima che spinge i cittadini a guardare solo il loro ombelico, pieni di paura e di comprensibile diffidenza. Un quadro disarmante, che mette a dura prova qualunque speranza: di fronte a una realtà sempre più complessa, non ci stiamo procurando gli strumenti necessari a capire e agire: nella Finanziaria il governo taglia i finanziamenti all’università per oltre 400 milioni e riduce gli investimenti in scuola e cultura, al punto che il ministro Giuli ha minacciato le dimissioni. Di questo passo continuerà a mancare totalmente quello che si potrebbe chiamare un approccio culturale alla realtà che ci circonda, sia essa la politica, il lavoro o la dimensione delle relazioni sociali. E non si tratta della cultura elitaria degli addetti ai lavori, ma della dimensione culturale diffusa, sempre più ricca e globale, volendo, grazie alla potenza dei media. Quella dimensione che cresce grazie all’offerta culturale cui tutti possono accedere: la letteratura, il cinema, il teatro, la musica, l’arte. Ciò che ci rende quelli che siamo, e che il Poeta indicava come via per non viver come bruti. Al ritorno dalla nostra missione ci ha sconvolto anche l’ennesimo sanguinoso incidente sul lavoro, a Calenzano, il secondo di queste proporzioni in un anno sul nostro territorio. Le indagini ci diranno che cosa è successo lì esattamente, ma a tutti è capitato di assistere, almeno una volta, alla sottovalutazione della sicurezza sul lavoro: un numero infinito di regole e di obblighi formativi spesso disattesi. Senza cultura del lavoro sicuro, la sicurezza diventa un adempimento come gli altri, un vincolo burocratico da cui liberarsi, e non un baluardo di civiltà che vorrebbe vedere i lavoratori rientrare sicuri alle loro case. Moltiplichiamo pure gli esempi, vale per qualunque impegno professionale, specialmente in una repubblica fondata sul lavoro: ricordarci perché siamo chiamati ai nostri compiti, il fine ultimo del nostro lavoro che va oltre il procurarci da vivere e non dovrebbe mai costarci la vita. Essere consapevoli di cosa c’è nel metro quadro che calpestiamo, delle persone che incontriamo, delle conseguenze di ciò che facciamo o non facciamo. Vale per ognuno di noi, ed è una prospettiva che si guadagna grazie alla crescita personale il cui principale motore è proprio quella cultura che è sulla bocca di tutti e nella mente e nelle decisioni di (quasi) nessuno.

* consigliera regionale Pd

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