“Dovrebbe farti a pezzi come hai fatto con lui”. Il cugino sotto indagine

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“Bergamini dovrebbe farti a pezzi come hai fatto con lui, vigliacco…”. Una frase cristallizzata da un’intercettazione ambientale che, secondo i giudici, imprime un altro scossone al muro di silenzi che per 35 anni ha coperto la verità sulla morte di Donato ‘Denis’ Bergamini, il calciatore argentano in forza al Cosenza morto nel 1989 a Roseto Capo Spulico, in Calabria. Non suicida come ritenuto per anni ma assassinato con premeditazione, secondo la convinzione della corte d’Assise di Cosenza che ha vergato cinquecento pagine per motivare la sentenza di condanna a sedici anni di Isabella Internò, ex fidanzata del giovane centrocampista. Su quella intercettazione, che accende i riflettori su Roberto Internò, cugino di Isabella, si era soffermato a lungo nella sua arringa l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Bergamini. Ora, messa nero su bianco, apre a nuovi scenari su un delitto del quale Internò sarebbe stata “adescatrice” di Denis e “istigatrice” degli esecutori materiali, tuttora ignoti. Ed è proprio sull’identità di questi ultimi che l’intercettazione sembra sollevare il velo. La conversazione è dell’aprile del 2019. Roberto e la moglie Michelina Mazzuca discutono da tempo. Litigano sulla deposizione che la donna avrebbe dovuto rendere e che aveva già reso agli inquirenti sulla sera della morte di Bergamini. Alle 16.33 del 2 aprile, Michelina sbotta. Si paragona a Donata Bergamini, sorella di Denis, a causa di un lutto per il quale non si dà pace e pronuncia quelle parole all’indirizzo del marito. Dei macigni, secondo l’Assise. Abbastanza pesanti da decidere di inviare gli atti alla procura di Castrovillari affinché indaghi Roberto Internò per concorso in omicidio.

Il contesto. Mentre quelle righe imprimono una spinta in avanti nell’accertamento della verità, le conclusioni della corte spostano lo sguardo indietro. Le pagine dell’atto fotografano il ruolo “attivo” di Internò nell’omicidio di Denis, rievocano quella relazione ormai irrecuperabile e segnata da un aborto, demoliscono il castello di bugie costruito per coprire l’accaduto e delineano il contesto (sociale e familiare) nel quale il fatto di sangue sarebbe maturato. Il filo conduttore è quello di un “delitto passionale” consumato in un microcosmo in cui l’onore assume un ruolo preponderante. I giudici dell’Assise parlano dell’imputata come di una persona “risoluta e animata dal morboso desiderio di possesso della vittima, che in precedenza aveva pagato il prezzo del rifiuto del matrimonio” con Denis “con un’interruzione di gravidanza molto avanzata”. Il tutto, rincara il tribunale, “per salvare l’onore di ragazza per bene che non può far nascere e crescere un figlio fuori dal matrimonio”. Ed ecco che il focus si sposta sul contesto. Tale situazione di ragazza madre non sarebbe stata accettata né dalla società dell’epoca, “un territorio sordo all’emancipazione femminile”, né dalla “famiglia, e innanzitutto il padre, ignaro perfino della rottura della relazione con la vittima”. Un quadro che Isabella non poteva non conoscere. “Le erano ben noti – scrive la corte – il modo di pensare, la mentalità dei cugini, pronti a compiere qualsiasi gesto a tutela dell’onore”, avendo lei “piena coscienza della capacità criminale dei correi e della mentalità violenta, retrograda e gretta”. Ed ecco che la lente torna su Roberto, puntando sul “contesto socio culturale in cui vive, amico di esponenti massimi della criminalità locale”.

Il ruolo di Isabella. Il processo, premettono i giudici, è indiziario. Ma ciascun indizio sembra “integrarsi perfettamente come le tessere di un mosaico”, senza lasciare spazio “a visioni alternative”. La relazione con Denis era finita definitivamente e Internò, mossa da un “senso di insopprimibile possesso”, inizia a maturare un “sentimento di rabbia e acredine e, con esso, la logica perversa del ‘con me o con nessuno’”. La donna, secondo i giudici, decide di “coinvolgere i parenti nella vicenda per dare una lezione a Bergamini”. L’azione delittuosa, si legge nelle pagine conclusive, è “diretta conseguenza di una fredda pianificazione e di un atteggiamento scaturente da una volontà punitiva” nei confronti del calciatore, da cui Isabella “non accettava il distacco, considerandolo res (cosa, ndr) di sua proprietà”.

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Il dolo. Un passaggio si sofferma poi sull’intento di Interò che, secondo la corte, si configurerebbe nella forma eventuale. In parole povere, la donna, “piuttosto che volere direttamente la morte dell’ex”, avrebbe voluto “condurlo a un regolamento di conti con i cugini”. Nell’esternare il suo “proposito vendicativo”, l’imputata si sarebbe però “prefigurata la concreta possibilità del degenerare del regolamento di conti” fino alla morte. I giudici delineano infine cosa avrebbe concretamente fatto Internò per raggiungere l’obiettivo. Oltre all’aver istigato i cugini “quanto meno a dare una lezione alla vittima”, avrebbe ‘adescato’ Denis mentre si trovava in ritiro conducendolo all’appuntamento a Roseto. Avrebbe inoltre precostituito un “falso alibi” per se stessa (“la richiesta di uscire con la vicina di casa” facendo poi intendere che fosse stato Denis a cercarla e non il contrario) e per gli altri, con “meschine fandonie sulla morte dell’ex compagno”. A supporto di tale convinzione si aggiungono la tesi del suicidio ripetuta per anni, il “finto dispiacere per la morte dell’ex” e l’ostentazione del ruolo di “vedova inconsolabile, come a voler riparare, di fronte ai familiari, l’onore ferito per l’abbandono”.



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