Verona, quando il boss di ‘ndrangheta portò le bombe dalla Calabria e poi se ne disfò in mare

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di
Giampaolo Chavan

Isola Scaligera, nella sentenza d’Appello tutte contestazioni a «Totareddu» Giardino, condannato a 29 anni e 4 mesi

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Antonio Giardino, detto Totareddu, era il capo indiscusso della locale scaligera legata al clan Nicoscia Arena di ‘ndrangheta di Isola Capo Rizzuto. Era anche il mediatore di liti nelle cosche ma anche l’organizzatore dello spaccio in città e provincia e il gestore delle armi destinate al suo clan. È proprio lui a ricordare il trasporto di alcune bombe dalla Calabria in città, avvenuto agli inizi del Duemila. «Mi servono a Verona» aveva detto ai capi della cosca. Poi è costretto a disfarsene su ordine degli stessi boss e il materiale esplosivo viene gettato in mare.

L’Appello

Il ritratto disegnato dalla motivazione della sentenza d’Appello dell’inchiesta «Isola Scaligera» del cinquantaseienne non lascia molti dubbi sulla sua caratura criminale. Il 5 luglio scorso la Corte d’appello lo ha condannato a 29 anni e 4 mesi, otto mesi in meno rispetto a quanto deciso in prima istanza dal Tribunale di Verona. «Trent’anni da passare qui in carcere sono troppi, non ci posso neppure pensare. Sono nato nel 1969, ora ne ho 55, da scontare per intero la pena vorrebbe dire uscire a 90 anni…troppi per chiunque, troppi per me che non sto neppure bene di salute…» disse Antonio Giardino nell’udienza del processo d’Appello lo scorso 31 maggio. 




















































Le condanne

Totareddu e gli altri imputati sono stati condannati anche a risarcire le parti civili, Amia, Cgil e Regione Veneto costituitesi in giudizio con gli avvocati Marco Mirabile, Chiara Palumbo e Alberto Berardi. Motivando sentenza, i giudici della Corte d’appello di Venezia, presieduta da Vartan Giacomelli con le colleghe Paola De Franceschi e Barbara Trenti, hanno ritenuto più che fondate le accuse rivolte a lui e ad altri imputati tra i quali il fratello Alfredo condannato a 19 anni, Michele Pugliese (17 anni e sei mesi), Francesco Vallone (13 anni) e Pasquale Durante (sei anni e 10 mesi con l’abbreviato). Tutti sono accusati di aver partecipato alla «locale» veronese legata alla ‘ndrangheta e di essersi avvalsi della forza d’intimidazione suscitata dall’organizzazione criminale per commettere i reati. A parere dei giudici, l’attività in riva all’Adige si sviluppava tra lo spaccio di stupefacenti, estorsioni, riciclaggio, emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, illecita detenzione di armi, truffe e corruzione. 

Sempre alla guida

A gestire l’esecuzione di questo nutrito gruppo di reati, c’era sempre «Totareddu». È stato inchiodato, sostengono i giudici della Corte d’appello, dalle numerosissime intercettazioni ambientali captate dagli investigatori dagli agenti della squadra mobile di Verona assieme ai colleghi di Venezia e dello Sco, il servizio centrale operativo della polizia oltre alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia tra i quali Nicola Toffanin e Domenico Mercurio. «Quelle intercettazioni nella mia stanza d’ospedale? Farneticavo, in realtà non ero in me…Ero sotto l’effetto di farmaci potenti, quelle frasi registrate non corrispondono al mio pensiero…» ha sostenuto Antonio Giardino durante il processo. È stato proprio in quella stanza di ospedale a Negrar dove Totareddu è rimasto ricoverato per alcuni mesi che gli inquirenti, coordinati dalla pm della Dda di Venezia Lucia D’Alessandro ora in servizio a Firenze, hanno raccolto preziosissimi elementi. Così è emerso l’episodio del trasporto delle bombe dalla Calabria in riva all’Adige. 

Le bombe

Nella conversazione del 10 settembre 2017, Antonio Giardino ricordava anche che si disfò del materiale esplosivo «per riappacificare tutte le componenti in conflitto», in quanto all’epoca c’era la guerra di mafia proprio a Isola Capo Rizzuto. La strategia della mafia calabrese in riva all’Adige era chiara: «Essendo che i territori del nord sono ricchi e sono miniere per gli ‘ndranghetisti – rivelò il collaboratore di giustizia Angelo Cortese nell’udienza del 10 gennaio 2022 – il problema non è fare soldi ma ripulirli». E i soldi si ripulivano anche infiltrandosi nel sistema politico e di conseguenza in quello degli appalti. Ad iniziare dalla vicenda corruttiva all’Amia (una tangente da tremila euro all’allora presidente Miglioranzi), che – si legge nella sentenza, «non era certamente un’operazione isolata e fine a se stessa ma doveva costituire l’inizio di un redditizio percorso criminale che avrebbe coinvolto non soltanto il già compromesso presidente di Amia ma altri amministratori e politici locali».

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10 febbraio 2025 ( modifica il 10 febbraio 2025 | 12:38)

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