La Corte Costituzionale (tuttora a ranghi ridotti) ha reso note le motivazioni che hanno indotto il collegio ad ammettere i quesiti referendari in materia di lavoro proposti dalla Cgil, che diventano pertanto i soli (oltre a quello sulla cittadinanza) per cui si voterà in primavera, dopo che il referendum sull’autonomia differenziata non è stato autorizzato.
Così la spinta propulsiva del pacchetto politico/sindacale dei quesiti è stata irreparabilmente compromessa rispetto a ciò che decide, da molti anni, dell’esito di un referendum abrogativo: il raggiungimento o meno del quorum strutturale per la sua validità (50% +1 dell’elettorato attivo).
Il referendum sulla legge Calderoli era sostenuto da un vasto schieramento di forze di opposizione tanto da mettere in campo due elettorati nel loro insieme, mobilitando anche il Mezzogiorno sulla base della propaganda un po’ demagogica dei sostenitori del referendum tutta basata su di un ingrediente di cui si è conosciuto l’effetto in questa fase storica: l’invidia sociale dei “poveri” meridionali nei confronti dei “signori” egoisti del Nord.
Oggi dopo la sentenza sull’inammissibilità del quesito ha indebolito la massa d’urto e ha lasciato solo Maurizio Landini con i suoi quesiti che non sono condivisi neppure da tutto il potenziale di mobilitazione dell’opposizione, né da tutto l’elettorato e i militanti del Pd, perché nessun gruppo dirigente è disponibile a spernacchiarsi da solo davanti a uno specchio ovvero a ripudiare il lavoro effettuato durante un decennio di permanenza al Governo soltanto per agevolare la vendetta di Landini nei confronti di Renzi.
La Corte sembra rendersi conto del fatto che l’elettorato sarà chiamato a pronunciarsi su di un malinteso ovvero sul ripristino in caso di vittoria dei Sì del leggendario articolo 18, mentre questo effetto non ci sarebbe.
“I promotori rilevano, in particolare, che l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 determinerebbe – è scritto nella sentenza del 7 gennaio – la riespansione (quale normativa di risulta) della disciplina di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), che diverrebbe applicabile a prescindere dalla data di assunzione del dipendente illegittimamente licenziato, facendo venir meno le «differenziazioni tra lavoratori che svolgono le medesime attività, in direzione di una uniformità dei trattamenti».
Sarebbe, quindi, in tal modo ricondotta a unità la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi e ne risulterebbe rafforzata la tutela dei lavoratori, avuto particolare riguardo alla reintegrazione nel posto di lavoro occupato prima del recesso”.
A questo punto la Corte sale in cattedra e chiarisce l’equivoco: il quesito referendario punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 Statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).
Anzi c’è di più. Se il Sì dovesse prevalere (abrogando per intero il dlgs n.23 del 2015) vi sarebbero secondo la Corte dei veri e propri svantaggi nella tutela dei lavoratori.
Ciò si verificherebbe nelle ipotesi del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, secondo comma, codice civile, all’esito della citata sentenza n. 22 del 2024 di questa Corte) e in quelle in cui il giudice accerti che il licenziamento intimato per disabilità fisica o psichica del lavoratore è ingiustificato perché l’inidoneità allo svolgimento delle mansioni assegnategli «non [era in realtà] riconducibile ad una condizione di disabilità» (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 maggio 2024, n. 14307).
In questi casi, infatti, è garantita la tutela reintegratoria “piena”, anziché quella “attenuata” prevista dall’art. 18 Statuto lavoratori.
Parimenti di favore è l’estensione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 9, comma 2) ai licenziamenti intimati dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, esclusi invece dal campo di applicazione dell’art. 18 Statuto lavoratori.
La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela (come si è evidenziato in precedenza), non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo.
Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione.
In altre e più semplici parole, la Corte intende dichiarare che i criteri di ammissibilità del quesito, come disposto dall’articolo 75 Cost. sono presenti e accertati: ovvero la chiarezza, omogeneità e univocità del quesito. Tra questi criteri la Costituzione non richiede che sia inclusa una convenienza per il lavoratore, una valutazione che non spetta alla Corte e che sarebbe difficilmente individuabile.
La Consulta, tuttavia, ci tiene a chiarire che le promesse dei promotori non risponderebbero agli effetti giuridici e che sarà bene fare i conti sulle effettive conseguenza del voto, illustrando punto per punto le modifiche apportate dalla Corte stessa nel corso degli anni che hanno profondamente cambiato – anche sull’aspetto delle garanzie per il lavoratore in materia di licenziamento – il dlgs n.23/2015 e il contratto a tutele crescenti.
Indicando soprattutto che la disciplina unitaria – se prevalesse un voto favorevole nel referendum – non sarebbe quella dell’articolo 18 della legge n.300/1970, bensì quello novellato dalla legge n.92/2012.
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