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La sentenza con cui la Corte costituzionale ha deciso di non ammettere il referendum sull’autonomia differenziata è breve, non dice molto più del comunicato e sembra glissare sulle importanti questioni di fondo. Ma alcune considerazioni «in punta di diritto» sono possibili.
La sentenza non spiega, ad esempio, il fatto che sta operando in via di supplenza: era l’Ufficio centrale che doveva giudicare sulla legittimità del referendum e, in caso, rilevare che l’effetto della sentenza 192 della Corte costituzionale che ha destrutturato la legge sull’autonomia differenziata ha privato di chiarezza il quesito rendendo «obiettivamente oscuro» l’«oggetto», modificandone altresì la «finalità». Può anche ammettersi che la decisione della Cassazione, che non ha fermato il referendum, fosse ambigua nelle motivazioni, contraddittoria, financo confusa, ma questo non giustifica di per sé la supplenza della Consulta. Sarebbe stato opportuno che almeno si chiarisse questo passaggio, senza dare per scontato che ad essa spetta rivalutare se sia vero, come deciso dall’Ufficio centrale, che permane la «materia referendaria».
In tal modo si mette di fatto fine ad una lunga stagione (iniziata nel 1978 con la sentenza 68) che ha visto la Corte allargare progressivamente il controllo della Cassazione sulla legittimità. Ora la Consulta sembra volersi riprendere lo spazio ceduto, concentrando su di sé ogni valutazione sui quesiti, sulla loro permanenza in vita almeno nei casi di modifiche normative effetto di sentenze costituzionali di natura demolitoria. La Cassazione aveva già provveduto a riformulare il quesito tendo conto della sentenza, la Consulta ora boccia questo indirizzo e giudica di nuovo il merito della legge residua.
La decisione assunta poggia sulla tesi della mancanza di chiarezza del quesito, in base a due collegati argomenti: l’oscurità sopravvenuta dell’oggetto e la mutazione del fine del quesito. Nel primo caso, l’analisi si concentra sull’effetto demolitorio prodotto dalla sua precedente sentenza 192, che non può negarsi essere stato massiccio. È dunque vero che si era «ridimensionato» l’oggetto, ma la domanda è se ciò sia sufficiente per impedire che il corpo elettorale si pronunci sulla parte residua. La Cassazione aveva detto di sì, la Consulta è stata di diverso parere.
Ma è il richiamo alla finalità che lascia maggiormente perplessi: «Se si ammettesse la richiesta in esame – scrive la Corte – si avrebbe una radicale polarizzazione identitaria sull’Autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’articolo 116, terzo comma della Costituzione, che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale». Una deduzione ardita per almeno due aspetti. Che i referendum radicalizzino lo scontro è nella natura dell’istituto. Da un lato i Sì dall’altro i No, senza mediazione alcuna. Sui temi di grande valore etico, morale, politico, tutto ciò si accentua, non v’è dubbio. L’Italia si è spaccata in due quando si è votato per il divorzio, l’aborto, il nucleare. Ma questa è la natura dell’istituto, negarne la portata divisiva vuol dire rifiutare il valore del referendum come contrappeso della democrazia rappresentativa.
Ma è il secondo aspetto che lascia francamente sorpresi. Perché l’abrogazione di una legge ordinaria dovrebbe tradursi in abrogazione di una norma costituzionale? È vero che la finalità dei referendari può essere individuata nell’opposizione ad ogni forma di autonomia differenziata almeno come concepita dall’attuale maggioranza (ma ancor prima sin dalle bozze di intesa del governo Gentiloni nel 2018). In fondo, seguendo l’insegnamento della Corte, la finalità del referendum provava a contestare l’interpretazione fornita dal legislatore ordinario dell’articolo 116, terzo comma, inteso come una «monade isolata». Senza che perciò possa affermarsi che l’effetto possa essere quello di abrogare una disposizione costituzionale. E ciò per la semplice ragione che il referendum non ha una tale forza giuridica. In caso può dirsi che – in base a qual che viene definito il «plusvalore democratico» del referendum – dopo un referendum vittorioso che esprime la volontà del popolo contro l’autonomia differenziata l’interpretazione della disposizione costituzionale sarebbe dovuta cambiare, rendendo possibile solo forme di autonomia regionale improntate al modello «cooperativo» e non a quello «duale».
In fondo proprio quel che ha già detto la Corte nella sua sentenza di dicembre. Una sentenza di interpretazione conforme, che non ha certo, neppure essa, abrogato la norma costituzionale. La Corte avrebbe dovuto riflettere sul piano della gerarchia delle fonti, senza indugiare su quello delle finalità politiche o sugli effetti auspicati dai promotori. È l’articolo 75 della Costituzione che non consente di sovrapporre la forza del referendum – che legittima solo l’abrogazione totale di una legge ordinaria – con quella prevista dall’articolo 138 di revisione della costituzione.
Ultime due considerazioni guardando al futuro. La decisione di non ammettere il referendum sull’autonomia differenziata va oltre la questione in sé e coinvolge l’istituto del referendum. Dopo tale sentenza non sarà facile richiedere abrogazioni totali delle leggi, l’invito sembra essere quello a privilegiare abrogazioni parziali, se non manipolative. Non è un bel segnale. La natura più “pura” del referendum è infatti proprio quella di chiedere al popolo se è d’accordo su una scelta di fondo della maggioranza parlamentare, dividendo radicalmente il corpo elettorale. Questa la virtualità e – sicuramente – anche il limite degli appelli al popolo. Ma sulle questioni di fondo l’ultima parola non può che spettare al popolo sovrano. Ora sarà più difficile proporre quesiti radicali, che sono – a mio modo di vedere – quelli più chiari nel loro «oggetto» e nelle loro «finalità».
Da ultimo, non si può non richiamare quel che mi sembra l’aspetto positivo di questa sentenza. Un’affermazione di grande valore, che può sostenere chi oggi, sebbene privato del voto, rimane contrario all’autonomia differenziata. La sentenza della Corte ribadisce senza esitazione ed anzi con formule ancor più incisive rispetto alla precedente sentenza non solo che la legge 86 del 2024 (Calderoli) è stata disintegrata, ma anche che non si può fare l’autonomia senza una legge ordinaria completamente diversa nei suoi principi. Calderoli potrà ancora far finta di nulla? È da questo che dovremmo ripartire.
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