Antonio Strangio, 42 anni è esponente del potente clan legato ai rapimenti degli anni ’80-’90. Trovato il suo Suv con all’interno ossa di pecora. Tra i vicoli apparsi cartelli della famiglia. «Non venite a visitarci»
È un mistero la scomparsa di Antonio Strangio, 42 anni, di San Luca (Reggio Calabria), sposato, con figli, esponente di spicco della famiglia dei «barbari», specialisti nella gestione dei sequestri di persona avvenuti negli anni ‘80-’90 in Italia. La sua auto, un Suv, è stata trovata bruciata alla foce del torrente Bonamico, che attraversa l’abitato di San Luca. Dentro, i carabinieri hanno rinvenuto i resti di una pecora. Vicino all’auto sono state trovati altre ossa che adesso i Ris stanno analizzando per capire se si tratta di resti umani o di animale.
La sua scomparsa risalirebbe a circa 15 giorni addietro. I familiari non avevano, però, fatto denuncia. Solo lunedì, quando è stata ritrovata l’auto da parte di un congiunto di Strangio, la famiglia si è recata in caserma per denunciare la scomparsa del familiare.
A San Luca si vivono ore di terrore. Quando la notizia è diventata pubblica nel piccolo centro aspromontano le donne sono corse a prendere i loro figli a scuola. Il paese è deserto. Il clima pesante. Si rivivono i momenti della faida tra i Strangio-Nirta e i Pelle Vottari che, iniziata il 10 febbraio 1991, ebbe il suo epilogo con la strage di Duisdburg, a ferragosto del 2007. Il blasone criminale degli Strangio sta preoccupando le forze dell’ordine, impegnate a soffocare ogni possibile reazione della famiglia dopo la scomparsa di Antonio Strangio.
I familiari hanno fatto affiggere sui muri di San Luca un manifesto che non è di morte ma che recita così: «Le famiglie Strangio e Scalia ringraziano tutta la popolazione ma, dispensano dalle visite». Come per dire: non abbiamo la certezza che il nostro congiunto sia morto ma, nel contempo, non vogliamo che la gente venga a casa per capire quello che ci sta succedendo. Gli inquirenti, però, spiegano questo «strano» manifesto come un segnale. La famiglia vuole evitare che si presentino a casa i loro «nemici» per origliare possibili rappresaglie.
C’è di più in questa misteriosa scomparsa: l’animale trovato bruciato dentro l’auto di Antonio Strangio potrebbe avere un significato nella simbologia ‘ndranghetista. Intanto è la prima volta che si riscontra una circostanza simile a San Luca. L’auto data alle fiamme con dentro un animale potrebbe essere un indizio per chi sta indagando. Un orientamento verso ipotesi non strettamente criminali ma, legati a faccende sentimentali.
La figura di Antonio Strangio è, però, una di quelle che si dice di «peso» nel panorama criminale di San Luca e oltre. Ha scontato anni di carcere per traffico di sostanze stupefacenti. Ma, quello che più preoccupa gli inquirenti è la famiglia. Antonio Strangio è, infatti, figlio di Giuseppe, uno dei sequestratori, tra gli altri, di Cesare Casella. Dopo un permesso premio di sette giorni concessogli dal giudice di sorveglianza, nel 1990, per tornare a San Luca, Giuseppe Strangio si diede alla latitanza. Fu arrestato dai Gis dei carabinieri dopo una sparatoria alla vigilia di Natale del 1990 mentre stava per incassare il riscatto pagato dai familiari di Casella. «Non torcetegli un capello», disse davanti alla telecamera della Rai parlando ai suoi complici dal letto d’ospedale di Locri dov’era stato ricoverato per un colpo di mitraglietta che l’aveva colpito alla gamba. La sua cattura e quella dichiarazione permise, dopo due anni di prigionia, la rapida conclusione del rapimento del giovane pavese.
Antonio Strangio è anche imparentato con i Mammoliti detti «Fischiante», di San Luca, coinvolti in numerose indagini sul traffico internazionale di cocaina. Gli Strangio, ancora, sono stati indagati e poi prosciolti anche per l’uccisione del brigadiere dei carabinieri di San Luca Carmine Tripodi, ucciso il 5 febbraio del 1985. Secondo le indagini di allora, avrebbe pagato con la vita il fatto di aver «incastrato» gli Strangio per il sequestro dell’ingegner napoletano Carlo De Feo. In galera per quel rapimento finirono molti componenti del clan tra cui Giuseppe Strangio, padre dello scomparso Antonio e il fratello Francesco genero di Rocco Mammoliti, il defunto capobastone della vecchia ‘ndrangheta calabrese.
La stagione dei sequestri in Italia ha avuto nella famiglia Strangio i protagonisti assoluti di quel periodo. Il primo componente della cosca inquisito per rapimento a scopo di estorsione fu il capo cosca Francesco. Catturato dopo un periodo di latitanza fu condannato a 28 anni di reclusione per il sequestro di Giuliano Ravizza, il re delle pellicce, rapito a Pavia nel gennaio del 1983. Con lui finirono in galera altri appartenenti della banda come Antonio Pizzata, cognato di Strangio. Riuscì all’epoca a sottrarsi alla cattura Giuseppe Mammoliti, considerato la mente della cosca assieme a Rocco Pipicella(da decenni si sono perse le sue tracce), molto vicino agli Strangio.
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