Meloni, vertice con Salvini e Tajani a Palazzo Chigi. Sul tavolo la riforma dei medici di base, può costare 5 miliardi

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Ritorno in pista. O sarebbe il caso di dire in corsia. Era nell’aria da giorni un vertice di maggioranza e oggi è il giorno. Stamattina la premier Giorgia Meloni si rivedrà a tu per tu con i vice Matteo Salvini e Antonio Tajani. Occasione per chiarirsi dopo settimane di agende parallele e qualche tensione che monta in maggioranza. Anche se il menù, sulla carta, ha un’altra portata: la riforma dei medici di base. Una rivoluzione per ora solo annunciata e su cui manca l’intesa tra alleati. Trasformare 36mila medici di famiglia italiani da convenzionati a dipendenti? Non è uno scherzo, stando alle prime stime del governo che parlano di un conto monstre per le casse dello Stato: 5 miliardi di euro. Con costi destinati a moltiplicarsi con il passaggio al pubblico.

Dagli investimenti negli ambulatori agli stipendi del personale amministrativo fino al materiale di consumo: camici, strumenti, uffici. Forza Italia monta le barricate e dice no: che restino lavoratori autonomi, i medici di famiglia, perché trasformarli dalla notte al giorno in dipendenti pubblici romperebbe «il rapporto fiduciario» che da sempre c’è tra i camici bianchi e le famiglie italiane. E darebbe uno strapotere alle Regioni in materia sanitaria, con costi altissimi per la fiscalità pubblica. Insomma il dossier è politicamente caldissimo. A sciorinare i numeri stamattina, nella riunione fissata per le 11, ci penseranno il ministro della Salute Orazio Schillaci e il titolare del Mef Giancarlo Giorgetti. Una stima per ora scritta solo a matita sulla scrivania del governo prevede, si diceva, un conto da quasi 5 miliardi. Andiamo con ordine. La questione è da tempo dibattuta. In sostanza la riforma per ora solo abbozzata dal ministero insieme alla Conferenza delle Regioni prevede una vera rivoluzione.

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LE STIME

Da autonomi, i medici di famiglia diventerebbero dipendenti del Servizio sanitario nazionale, proprio come gli ospedalieri. La ratio dietro questa rivoluzione sarebbe la seguente: i medici di medicina generale, da dipendenti del Ssn, sarebbero impiegati per far funzionare le 1350 “Case della comunità” finanziate con ben due miliardi del Pnrr. E le novità non finirebbero qui: come dipendenti pubblici, per i medici di famiglia sarebbe previsto un minimo di 38 ore di lavoro settimanali, mentre oggi il minimo garantito si aggira tra le 5 e le 15 ore. Tante però le incognite che Meloni cercherà di affrontare con gli alleati questa mattina. Anzitutto i costi dell’operazione. Già, perché far passare sotto l’ombrello dello Stato decine di migliaia di medici non è di certo un’operazione a costo zero. Basti pensare alle spese extra per approntare strutture e personale amministrativo da affiancare ai nuovi dipendenti del Servizio sanitario. Un groppone che può pesare sul Fisco italiano. Senza contare che con il passaggio dalla convenzione alla dipendenza e dunque all’Inps si metterebbe a rischio il destino dell’ente previdenziale dei medici di base (Enpam), la più grande cassa pensionistica privata d’Italia, con quasi 26 miliardi di contributi versati e reinvestiti. Per capire, sono quasi diecimila i medici di medicina generale che oggi hanno diritto alla pensione Enpam. C’è poi un versante politico e qui si torna al vertice di stamattina con la premier. La quale ha per ora una posizione «interlocutoria» sulla riforma dei medici, a differenza di Tajani che con Forza Italia e buona parte della categoria promette le barricate.

E Salvini? È un work in progress anche la posizione ufficiale leghista. Certo sui calcoli del vicepremier non può non pesare il forte pressing del Veneto a favore della riforma. Di fatto un altro modo per dire “autonomia”: con i medici di famiglia “dipendenti” le Regioni stringerebbero ancora di più la presa sulla Sanità. In pressing a favore della riforma, a dirla tutta, c’è anche la regione Lazio guidata da un governatore di Fratelli d’Italia, Francesco Rocca, come due regioni a guida Pd, l’Emilia-Romagna e la Campania.

Tutte in trincea con un argomento a difesa della riforma e cioè la necessità di risolvere i problemi delle strutture territoriali. Come appunto le case di comunità – più di mille – che il governo dovrà realizzare entro il 2026 con i fondi del Recovery. «Luoghi fisici di prossimità e facile individuazione dove la comunità può accedere per poter entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria, sociosanitaria e sociale». Sono tante e sono ancora troppo vuote, mancano i medici di famiglia, gridano in coro le Regioni a sostegno della riforma. Anche se l’ultima convenzione per i medici di medicina generale siglata dai sindacati nel 2024 prevede già per i professionisti coinvolti – con il cosiddetto “ruolo unico” – la possibilità di spendere una parte delle ore di lavoro settimanali nelle strutture di “prossimità” come le Case di comunità . Insomma tanti i punti da chiarire. È una riforma ad alto impatto sull’opinione pubblica, del resto. Secondo gli ultimi sondaggi interni dei sindacati il 70 per cento dei giovani medici di famiglia è contrario all’idea di timbrare il cartellino. Di qui l’atteggiamento “interlocutorio” con cui Meloni affronterà stamattina il dossier. E l’ipotesi sul tavolo di lasciare, per i nuovi medici, la facoltà di scegliere tra convenzione e dipendenza. Probabile che a margine ci sia tempo per un vis-a-vis con Salvini e Tajani, dopo settimane roventi nella coalizione. Il ministro degli Esteri non ha preso affatto bene il blitz del leghista in Israele, con tanto di selfie insieme a Netanyahu e ai vertici del Likud. E ieri in una riunione a porte chiuse con il direttivo di Forza Italia alla Camera non ha lesinato critiche al premierato, la «madre di tutte le riforme» (copyright Meloni). Senza dimenticare il caldissimo fronte della giustizia e le trattative ormai agli sgoccioli per chiudere sui giudici della Corte Costituzionale. È tempo di una diagnosi completa a Palazzo Chigi.

 

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