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Effetti collaterali. Con i dazi di Trump, l’Europa sarà invasa da prodotti made in China #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


L’unica nuova guerra che difficilmente potrà essere evitata appena il presidente eletto Donald Trump si insedierà a gennaio alla Casa Bianca è quella commerciale. Subito dopo la vittoria dei repubblicani, i mercati e le borse hanno reagito con una vistosa esultanza. Il dollaro si è apprezzato, Wall Street è volata e naturalmente anche il mercato delle criptovalute è andato su di giri. Se il piano di tagli da miliardi di dollari ai costi della burocrazia che dovrà attuare il Dipartimento per l’efficienza governativa Doge, guidato dal miliardario Elon Musk e dall’imprenditore biotech Vivek Ramaswamy basterà a compensare l’enorme deficit fiscale che la Trumpnomics comporterà per le casse già altamente indebitate degli Stati Uniti è tutta da vedere. Per ora gli investitori scommettono su un aumento del debito, tagli di tasse per le imprese e quindi una possibile ripresa dell’inflazione. L’indice dei prezzi rischia però di essere spinto verso l’alto anche dalle promesse, una volta realizzate, di aprire un nuovo fronte commerciale con la Cina.

La promessa della campagna elettorale di Trump di imporre tariffe fino al 60% sulle importazioni di tutto il made in China è una minaccia diretta allo stesso modello di crescita promosso dal presidente cinese Xi Jinping, che si concentra sull’aumento della produzione e delle esportazioni per far uscire il Paese da una situazione economica critica appesantita dalla profonda crisi immobiliare, dai rischi di deflazione e dai consumi deboli. L’Europa, al momento, un po’ resta a guardare un po’ prova a prepararsi con blande contromisure al nuovo inquilino della Casa Bianca, con cui in passato non è sempre andato d’accordo, mettendo in conto che, pure se non ai livelli della Cina, potrà essere preso di mira a sua volta dalle tariffe Usa in ragione del marcato surplus commerciale, motivo di profonda insoddisfazione per i repubblicani.

Nel suo primo mandato, Trump aveva già imposto tariffe su 6,4 miliardi di euro di acciaio e alluminio dell’Ue. Nel 2018, l’Unione Europea rispose con tariffe all’import sul bourbon, moto Harley-Davidson e altri beni per poco meno di tre miliardi di euro. Le misure statunitensi sono attualmente sospese fino alla fine del 2025, mentre resta congelato il conflitto di lunga data sui sussidi all’industria degli aerei, lo scontro cioè ultradecennale tra Boeing e Airbus.

Il rischio che il copione si ripeta, anche in versione aggravata, è alto. Giovedì si è tenuta una riunione dei ministri del Commercio dell’Ue, nella quale si è deciso di muoversi d’anticipo, provando a intavolare discussioni in materia di scambi commerciali con il team del presidente eletto, prima ancora che metta piede alla Casa Bianca. Le minacce finora lasciano presagire un ritorno a dazi su alcuni beni prodotti in Ue nell’orbita del 10-20%, ma come deciderà di muoversi Trump è al momento ignoto. “Nessuno può avere interesse in un conflitto commerciale con gli Stati Uniti. Ma inginocchiarsi sarebbe altrettanto sbagliato. Il mercato interno europeo è tanto importante per l’economia americana quanto il mercato americano lo è per l’Europa. Gli americani devono capire che imporre dazi rende i prodotti più costosi nel proprio Paese e fa aumentare l’inflazione, e nessuno può volerlo”, ha detto il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck arrivando al Consiglio Ue Commercio.

Stesso tenore il messaggio che arriva dalle imprese: “Tra poco avremo un nuovo presidente degli Stati Uniti che è scettico verso l’Ue e ha già detto che alzerà i dazi. Abbiamo due mesi di tempo per prepararci e trasformare le nostre politiche economiche o lo shock economico sarà forte”, ha detto Patrick Martin, presidente del Medef, intervenendo al trilaterale con l’italiana Confindustria e l’omologa tedesca Bdi.

Come avvenuto in passato, è probabile che le tariffe per le imprese europee saranno più morbide rispetto a quelle applicate al Made in China. Questo anche per evitare che l’Ue si getti, alle brutte, nelle braccia del Dragone. Secondo il Wall Street Journal, Pechino sta già corteggiando gli alleati Usa per difendersi dal protezionismo del futuro presidente Trump. Pechino, ha riferito il Wall Street Journal, punta a  “piani per inondare gli alleati americani in Europa e Asia di tagli tariffari, esenzioni dai visti, investimenti cinesi e altri incentivi”, oltre a offerte di investimento. Con il tycoon che promette di infliggere danni all’economia cinese estromettendo i beni del Dragone dal mercato americano, Pechino sta insomma considerando le contromisure possibili per allontanare i tradizionali alleati Usa da Washington, a maggior ragione se colpiti anch’essi dalle tariffe. La mossa aiuterebbe a guadagnare tempo nella competizione diretta del Dragone contro gli Stato Uniti.

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Al termine del Consiglio Ue, i ministri del Commercio dei 27 hanno concordato sulla necessità di cercare un impegno costruttivo con la nuova amministrazione, e al tempo stesso di essere pronti a reagire “in misura proporzionata e coordinata” in caso di nuovi dazi, senza tuttavia rivangare il passato. Questo è peraltro il senso del messaggio di Emanuele Orsini, presidente di Confindustria, al termine del trilaterale con le omologhe associazioni francese e tedesca: “Il voto negli Stati Uniti ci impone di non perdere più tempo. Oggi Trump ha nel suo programma tre punti fondamentali sull’economia, uno sono i dazi”, ha continuato Orsini che ha ricordato le cifre dell’interscambio tra i due alleati occidentali. Gli Usa esportano in Europa 346 miliardi, l’Ue ne esporta lì circa 500, facendo perciò registrare un surplus commerciale favorevole per il vecchio continente di quasi 160 miliardi. Per il presidente di Confindustria “serve da subito iniziare un negoziato dove magari porre al centro cose di cui l’Europa ovviamente ha bisogno, penso al gas e alla difesa”. In altre parole, prepararsi all’impatto prima che avvenga, ma nel frattempo fare di tutto per evitarlo.

È quello che non può fare la Cina. Pechino ha presentato nuove misure per rilanciare i suoi scambi con l’estero. Il ministero del Commercio ha pubblicato un avviso in cui ordina a tutti i livelli di governo di attuare immediatamente politiche per “promuovere la crescita stabile del commercio estero e consolidare e potenziare lo slancio verso l’alto dell’economia”. Le misure comprendono l’espansione dell’assicurazione del credito all’esportazione, un forte sostegno finanziario per le imprese straniere e una più agevole regolazione del commercio transfrontaliero. Altre mosse mirano a sviluppare ulteriormente il commercio elettronico transfrontaliero, a spingere le esportazioni di prodotti agricoli speciali e a sostenere maggiormente le importazioni di “attrezzature chiave, risorse energetiche e altri prodotti”. Pechino si è detta disposta a parlare con gli Stati Uniti per promuovere il commercio bilaterale attraverso un dialogo attivo “basato sui principi del rispetto reciproco”, assicurando che il Dragone sarebbe in grado di “risolvere e resistere” all’impatto degli shock esterni.

Questo carica l’Europa dell’enorme fardello delle scelte finora mai fatte o rinviate. Per ragioni ignote, anche se nel dibattito politico tutti i leader avvertono sulla necessità che l’Unione si dia una svegliata e si attrezzi di tutti gli strumenti per poter essere autonoma e resiliente alle minacce di altri Paesi, alla fine poco si muove. Ha colto il punto il premier francese Michel Barnier intervenendo al Business Forum trilaterale delle associazioni industriali di Francia, Italia e Germania: “Indipendentemente dal presidente americano, che rispettiamo chiunque sia, abbiamo bisogno di una ‘sveglia’ per l’Europa e magari di dire ‘Europe First’. “Siamo stati un po’ naif su alcune politiche, come sulla concorrenza. Sul digitale non abbiamo ‘campioni europei’. A livello commerciale abbiamo aperto tutte le porte e nessuno lo ha fatto con noi. Serve della reciprocità, anche se magari non abbiamo tutti le stesse idee in Europa”, ha continuato Barnier, sottolineando che “‘il mercato interno è il nostro principale potere. La ragione per cui Trump deve fare attenzione e rispettarci e lo stesso deve fare la Cina è il mercato interno che abbiamo costruito”.

L’idea di fondo è che l’Ue sia attrezzata a una guerra commerciale a bassa intensità con gli Stati Uniti. Ma probabilmente non lo è a quella molto più distruttiva tra gli Stati Uniti e la Cina. Paradossalmente, lì dove avrebbe un ruolo passivo rischia di patire il danno maggiore. In quel caso, il rischio è che tutta la capacità produttiva cinese in eccesso – il mercato americano non sarà più in grado di assorbire per le barriere all’ingresso – inondi il vecchio continente.

D’altro canto, come ha rilevato il Governatore di Bankitalia Fabio Panetta durante il seminario G7 la scorsa settimana, il protezionismo non è così protettivo come farebbe pensare la parola. “Le politiche brusche verrebbero inevitabilmente aggirate, i prodotti chiave presi di mira dalle restrizioni commerciali bilaterali troverebbero percorsi indiretti verso blocchi opposti attraverso il commercio con paesi terzi, trasformando semplicemente una relazione bilaterale in un commercio a tre”. Durante la prima presidenza Trump si è assistito a un incremento di triangolazioni commerciali tra Cina e Usa, con Paesi terzi che hanno fatto da intermediari. Così come altri Paesi lo stanno facendo tra Ue e Russia per aggirare le sanzioni.

Bruxelles è consapevole di non poter andare allo scontro frontale con la Cina. Anche dopo aver imposto i dazi sulle auto elettriche cinesi, ormai in vigore, sta continuando a negoziare con Pechino per arrivare al più presto a una soluzione ed eliminare le tariffe. Visti gli errori grossolani del passato, l’Ue sta ora cercando di mostrarsi meno permissiva, pur compiendo tutti gli sforzi per evitare guerre commerciali. Secondo il Financial Times, la Commissione starebbe lavorando a un piano per obbligare le aziende cinesi che vogliono lavorare in Ue a trasferire la proprietà intellettuale in cambio di sussidi europei, nell’ambito di un regime commerciale più severo.

Così sta provando a fare con la Cina quello che la Cina ha fatto per anni con l’Ue. In tanti settori, dall’auto alle nuove tecnologie, dai treni alle batterie, Pechino ha sempre adottato una strategia definita per sedurre prima e abbandonare poi i partner occidentali. Una strategia in quattro step, come identificata dal think tank americano Itif: individuare una tecnologia/industria come obiettivo strategico; utilizzare l’accesso all’immenso mercato cinese per costringere i soggetti esteri a fare joint venture e a trasferire tecnologie; fare ricorso alle più disparate pratiche di concorrenza sleale come sussidi alle sole imprese cinesi, agevolazioni fiscali, fusioni forzate, appalti pubblici discriminatori; una volta padroneggiata la tecnologia delle imprese straniere, accompagnarle alla porta del mercato domestico proteggendo il mercato interno ed esportando il surplus.

Forse gli ultimi due step difficilmente possono far parte della pianificazione europea, ma i primi due certamente: se la Cina non vuole ritrovarsi un altro fronte commerciale come quello dato per scontato con gli Usa, allora forse potrebbe scendere a compromessi con l’Ue. La montagna di investimenti esteri nell’industria dell’automotive, delle batterie, dei pannelli solari, delle turbine eoliche sono a rischio: con le tariffe americane punitive sul Made in China di Trump, l’Ue sarebbe l’unico mercato in grado di assorbire una buona parte dell’eccedenza produttiva del Dragone. In altre parole, a compromessi con qualcuno bisognerà pur scendere. 

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