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Cosa vuole davvero Trump? E l’Europa sa cosa vuole?

Le prime azioni di Donald Trump, ma anche il suo programma elettorale, prefigurano una rottura dell’America liberale che abbiamo conosciuto: meno libero mercato e più sovranismo, meno partecipazione alle organizzazioni internazionali e più colonialismo, meno spese per il controllo del mondo e più attenzione agli interessi degli americani. Così almeno sperano quei 77 milioni di americani, non certo tutti ricchi, che l’hanno votato e che hanno visto ridursi lavoro e salario sotto i governi dei Democratici. Trump critica la decisione dell’allora presidente Jimmy Carter di riconoscere nel 1977 il diritto di Panama a controllare l’omonimo canale, in quanto minaccia gli interessi “nazionali”; e già Reagan negli anni ottanta aveva proposto di uscire dall’Unesco.

Trump vuole decidere da solo e non avere i vincoli e contrappesi tipici della democrazia liberale. Nei prossimi due anni lo può fare e vedremo cosa succede. Per ora ha anche l’appoggio di tutto il mondo del business (finanza e grandi multinazionali) che spera di fare affari anche con lui e poter bloccare le azioni degli antitrust (sia USA che UE), evitando la concorrenza con piccoli nascenti competitors.

Zelenskij, capendo l’aria che tira, vuole entrare nelle sue grazie. Infatti adesso non chiede più soldi per gli armamenti,  ma afferma: “siamo felici di intensificare la cooperazione tra le industrie minerarie dei nostri due paesi”. Parlando come si mangia significa: siamo felici di svendere a condizioni privilegiate agli americani quel che ci resta dei giacimenti  delle terre rare ucraine. Agli europei, che pure hanno speso la metà di quanto hanno stanziato in armi gli Stati Uniti, si daranno le briciole e il 30% delle terre rare ucraine finirà nelle mani dei russi dopo l’avanzata dell’esercito negli ultimi 12 mesi.

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I dazi che Trump vuole imporre sono un modo per tornare al mercantilismo, la prima teoria economica del 1600 quando, influenzati dalle conquiste coloniali (e dai vantaggi che ne derivarono col commercio), si sosteneva che la ricchezza di una nazione derivava dal mercanteggiare al fine di accumulare ogni materia prima (tra cui oro e schiavi) proveniente dalle colonie. Oggi sono materie prime le terre rare e le rotte marittime. Gli Stati Uniti non vogliono inoltre più svolgere il ruolo di consumatore di ultima istanza svolto per decenni, che chiudeva il deficit di domanda interna delle aree in surplus (Cina e Germania su tutte).

Qualcosa Trump potrà fare tra minacce e dazi veri: del resto la nostra Iva al 22% cos’è se non un dazio all’import, visto che negli Stati Uniti l’iva federale non esiste e sono i singoli Stati che applicano una “sales tax” che varia dall’1% all’11%? Ma in realtà dietro al mercantilismo ci sono altre strategie, come fare più affari a spese dei vassalli occidentali e rafforzare la morente manifattura made in Usa ormai vicina al collasso (ha 5 milioni di dipendenti rispetto ai 4 dell’Italia e a 8 della Germania) che determina il più grande deficit commerciale al mondo (-1.210 miliardi nel 2024, +14% sul 2023; era quasi a zero 25 anni fa). Nei servizi l’avanzo è invece di 293 miliardi e nel complesso la bilancia dei pagamenti è in deficit per 917 miliardi.

Dopo l’incontro col primo ministro giapponese Ishiba, Trump ha trasformato quella che era una pericolosa vendita (per l’interesse nazionale USA) della US Steel (acciaio) ai giapponesi della Nippon Steel (per 15 miliardi di dollari), in un enorme investimento in Usa “a favore del lavoro americano e dell’industria manifatturiera USA”. Dopo questo accordo per i dazi contro il Giappone (che ha un avanzo commerciale con gli USA di 68 miliardi annui) “si vedrà” ha detto Trump. Così i dazi contro l’Europa servono per convincere gli imprenditori europei a investire negli Stati Uniti (Elkann ha già dichiarato che investirà 5 miliardi con Stellantis) per creare lavoro americano e rafforzare la loro manifattura. Anche a Gaza si vorrebbe usare la fine della guerra per giganteschi affari a vantaggio degli interessi nazionali Usa.

Operando in questa direzione, Trump smantella parte del capitalismo che abbiamo conosciuto con la globalizzazione, che mescolava liberi scambi con disuguaglianza, ma svilisce anche alcune mitigazioni alla logica del puro capitalismo predatorio, tipiche della cultura liberale come: antitrust, vera concorrenza, welfare, tutela dei diritti delle minoranze, indipendenza della magistratura, della stampa, libere elezioni. Tutti aspetti che si sono molto deteriorati sotto lo tsunami della globalizzazione e degli stessi governi dei Democratici a partire dal 1999. Si pensi solo all’uso della forza e della guerra (della politica e della finanza) per imporre certi interessi nazionali (Belgrado e Kosovo 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Maidan in Ucraina nel 2014, UE come mero mercato) in quanto si credeva di essere diventati i padroni del mondo.

L’ascesa di Cina e Russia e dei BRICS, organizzatisi dal 2009 e favoriti proprio dalla globalizzazione americana, ha avviato quel declino USA che ora Trump vorrebbe fermare. Al di là infatti della narrazione delle élite europee e di Nato sui super poteri degli USA, dell’Intelligenza Artificiale, del dominio sul mondo del dollaro e della finanza anglosassone, gli Stati Uniti hanno serie debolezze legate alla disgregazione in atto della società americana, ai conflitti crescenti sull’immigrazione e al gigantesco deficit commerciale dovuto alla scomparsa della manifattura che ha fatto scoprire come le guerre (anche quelle future, se non sono nucleari) si perderanno tutte contro Cina e Russia per il fatto che i soldi non sostituiscono né gli eserciti (uomini in carne ed ossa da mandare al macello), né la fabbricazione di armi e munizioni (ci vuole la vile “terra” della manifattura e non solo il “cielo” di Starlink).

Daron Acemoglu (recente premio Nobel in economia) e Francis Fukuyama (politologo) hanno scritto su Foreign Policy che solo un liberalismo rifondato può contenere il populismo autoritario in America e in Europa. E forse c’è bisogno anche di qualcos’altro, visto che proprio Fukuyama che aveva preconizzato “la fine della storia” nel 1992, non ci ha preso per niente.

Tra Trump e Musk (e anche le altre big company) si profila uno scontro a breve: Trump ha preso i voti di 77 milioni di americani che vogliono salari e benessere in contrasto con la logica dei profitti delle big company e di Musk.

Se l’America sceglie il neo colonialismo (dazi e mire coloniali su Canada, Panama, Groenlandia, Messico, Gaza come riviera di lusso, le terre rare dell’Ucraina, l’Europa come eterno vassallo…), tenere fuori i migranti significa entrare in collisione non solo con le big company ma anche con Cina, Brics e resto del mondo. Ecco perché può fare la voce grossa soprattutto coi suoi vassalli: Giappone, Corea del sud, Canada e soprattutto Europa, ultimo alleato vassallo senza guida politica e quindi alla sua mercè (27 nani alla corte di Trump), con probabili effetti di prossima disgregazione.

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Per rifondare il liberalismo (come dice Acemoglu) bisognerebbe ridimensionare i grandi tecno-feudatari delle big company del tech, ridare spazio all’antitrust e alla concorrenza delle piccole e medie imprese, alle norme a favore degli umani sull’Intelligenza Artificiale, rilanciare welfare e salari fermi da 40 anni, occuparsi dei diritti sociali e delle disuguaglianze, organizzare un’immigrazione legale dignitosa, rilanciare il multilateralismo equo, temi che sono stati abbandonati da decenni e che certo non saranno ripresi da Trump. Vedremo come andrà a finire, ma è probabile che si affermi un fenomeno non nuovo in America, cioè quello del ritorno ad un nazionalismo sovranista che si andrà scontrando con i nuovi attori emergenti nel mondo (Cina, Russia e Brics).

L’Europa purtroppo è del tutto assente. Potrebbe svolgere un ruolo enorme nel mondo basando lo sviluppo umano su pace, diritti e welfare per non soccombere ai dazi americani, favorendo molto di più la domanda interna, cioè i consumi dei propri cittadini, riducendo la dipendenza da merci, gas e petrolio che provengono dagli Stati Uniti, favorendo “made in Europa” come si è fatto con Airbus ma aiutando anche le piccole e medie imprese (e non solo i “campioni”) e su beni che rispondono a necessità di benessere reale e non inseguendo il riarmo voluto dall’alleato USA. Spazi fiscali non ci sono per fare entrambe le cose e la difesa si può fare riorganizzandosi e spendendo meno degli attuali 340 miliardi dei 27 nani (3 volte la Russia).
Potrebbe svolgere poi un ruolo autonomo nel mondo, rifondando tutte le istituzioni internazionali (a partire dall’ONU) sotto il segno dell’equità, del giusto equilibrio e non come ora sotto l’egida dell’America e dei potenti di turno usciti dalla 2^ guerra mondiale. La grande maggioranza dei paesi del mondo sarebbero d’accordo e l’Europa ne avrebbe un enorme vantaggio morale, economico e commerciale. Si tratterebbe di ripartire non da zero ma da tre, anzi dai sei fondatori.

Per leggere gli articoli di Andrea Gandini su Periscopio clicca sul nome dell’autore

Economista, nato Ferrara (1950), ha lavorato con Paolo Leon e all’Agenzia delle Entrate di Bologna. all’istituto di studi Isfel di Bologna e alla Fim Cisl. Dopo l’esperienza in FLM, è stato direttore del Cds di Ferrara, docente a contratto a Unife, consulente del Cnel e di organizzazione del lavoro in varie imprese. Ha lavorato in Vietnam, Cile e Brasile. Si è occupato di transizione al lavoro dei giovani laureati insieme a Pino Foschi ed è impegnato in Macondo Onlus e altre associazioni di volontariato sociale. Nelle scuole pubbliche e steineriane svolge laboratori di falegnameria per bambini e coltiva l’hobby della scultura e della lana cardata. Vive attualmente vicino a Trento. E’ redattore della rivista trimestrale Madrugada e collabora stabilmente a Periscopio.



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