Pavia – Caso Fibronit, ultimo atto. Cala definitivamente il sipario sul procedimento penale avviato nel novembre 2009 nei confronti di dieci indagati complessivi per i reati, in concorso e continuati, di omicidio colposo e lesioni colpose, ai danni di un lunghissimo elenco che ha raggiunto il numero di 470 persone offese, tra morti e malati per amianto a Broni. Il sostituto procuratore Andrea Zanoncelli e il procuratore Fabio Napoleone hanno firmato l’ultimo atto, la richiesta di archiviazione, depositata ieri. Un atto nel quale la Procura riepiloga tutte le fasi del lungo procedimento, che a sua volta traeva origine da una ancor precedente attività d’indagine del 2004, approdata nel giugno 2011 alla richiesta di rinvio a giudizio per tutti i dieci indagati: Michele Cardinale, Lorenzo Mo, Dino Augusto Stringa, Teodoro Manara, Claudio Dal Pozzo, Giovanni Boccini, Guglielma Capello, Maurizio Modena, Domenico Salvino e Alvaro Galvani.
Già noti gli esiti dei processi che ne sono seguiti nel corso degli anni, nei confronti solo di alcuni degli indagati, perché nel frattempo quattro di loro erano deceduti, uno era stato ritenuto incapace di stare in giudizio, mentre gli altri alla fine tutti assolti in diversi iter processuali, l’ultimo dei quali conclusosi il 18 luglio 2022 e passato in giudicato senza impugnazioni nel novembre di due anni fa, con l’assoluzione in appello-bis, dopo che la Cassazione aveva ribaltato le precedenti condanne al primo e secondo grado di giudizio. Il caso insomma era di fatto già chiuso, ma ora la Procura ha messo la parola fine con l’ultimo atto, che vuole però dare delle risposte.
Vanno ricordate prima le conclusioni della Cassazione sulla “insanabile incertezza scientifica e della conseguente impossibilità di trarre affermazioni causali sicure, pur dando per scontato che tutte le vittime abbiano contratto il mesotelioma pleurico a causa delle polveri di amianto disperse nello (o dallo) stabilimento di Broni (con conseguente esclusione di decorsi causali alternativi), deve essere rilevato che l’arco temporale all’interno del quale si colloca, nei singoli casi, l’esposizione all’amianto era in tutti i casi presi in considerazione assai ampio, con conseguente impossibilità di determinare con univoca certezza se il periodo 1981/1985 – durante il quale gli imputati ricoprivano ruoli di responsabilità – abbia o meno trovato collocazione all’interno della fase di induzione delle singole cancerogenesi”.
La Procura rileva così che “il tentativo, più storico che penalistico, che questa Procura ha inteso per oltre un decennio perseguire nell’intento di dare una risposta alla tragica strage consumatasi nel territorio del Comune di Broni e nella provincia di Pavia ha dunque trovato un ostacolo giudiziario insuperabile e in alcun modo potrebbe essere giustificata una prosecuzione di ulteriori attività di indagine o addirittura una nuova azione penale”. E anche ricordando “le toccanti parole in occasione delle sue conclusioni da uno degli avvocati delle parti civili costituitesi” dinnanzi al Tribunale di Pavia (“tutti noi che viviamo o lavoriamo a Broni siamo delle bombe a orologeria, speriamo solo di essere graziati per qualche motivo e che, in qualche modo, possa arrivare una qualsiasi forma di risposta dello Stato”) la Procura conclude ammettendo che “la prospettiva penalistica non ha saputo offrire una tutela alle vittime del contagio da fibre di amanto né ai loro prossimi congiunti”. Un epilogo amaro.
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