Corriere ortofrutticolo | MANGO SICILIANO VENDUTO COME UNA GRIFFE D’ALTA MODA. AMATA: “IL PRODOTTO VA RACCONTATO”

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In Sicilia il mango ha trovato casa sulla costa tirrenica a poche decine di metri di altitudine. Decenni fa il compianto Francesco Calabrese, che all’Università di Palermo insegnava “Frutticoltura tropicale subtropicale” e fu tra i primi a occuparsi di queste colture, sulla base dei risultati ottenuti in numerosi campi sperimentali realizzati in Sicilia, arrivò alla conclusione che la zona più vocata per il mango era quella compresa tra Bagheria (in provincia di Palermo) e Milazzo (in provincia di Messina).

Non è un caso che proprio lì siano sorte numerose (non moltissime in verità) aziende che si sono specializzate nella coltura. E molti altri imprenditori pare stiano investendo su nuovi mangheti, sostituendo vetuste piante di limone che magari sono state colpite dal malsecco, malattia insidiosa che si può controllare ma richiede tempestività d’intervento, tantissima prevenzione e attenta valutazione dello stato di salute delle piante. Tutte cose che si possono assicurare se la coltura non viene abbandonata a se stessa. Stessa regola – addirittura più ferrea – vale per il mango.

Vincenzo Amata

“È una specie che si è acclimatata bene in Sicilia e può dare buoni risultati economici a patto di sapere rispettare le esigenze colturali, cosa che, in aree diverse dal paese di origine, è più complicato da fare”, avverte Vincenzo Amata, ex rappresentate di commercio (ha girato per decenni la Sicilia con un’auto-furgone carica di campionari di abbigliamento) che in agricoltura ha cominciato da zero, partendo da una delle colture più complicate.
“Quando, folgorato dalla bontà del mango (il primo nella mia vita a oltre 50 anni lo assaggiai proprio in Sicilia), mi convinsi che nel piccolo fondo vicino al paese di Sant’Agata di Militello ereditato da mia moglie (l’azienda agricola è intestata a Rosalia Bianco, ndr), avrei potuto tentare l’investimento alla luce dei risultati incoraggianti ottenuti nei campi sperimentali vicini, non ho più pensato ad altro”. C’era però un problema: “Dodici anni fa non sapevo nulla di agricoltura e non c’erano tecnici di campo formati sull’argomento”, spiega Amata. Si sapeva poco o nulla dei sesti d’impianto, di dove reperire materiale vivaistico sano e rispondente alle varietà scelte, di come proteggere la coltura dalle patologie più frequenti. Appresi che bisognava evitare il diffondersi dello Pseudomonas syringae (il batterio che provoca la necrosi apicale e mette a rischio la sopravvivenza delle piante). E imparai a mie spese quanto fosse importante contenere l’antracnosi durante il ciclo colturale per evitare che il manifestarsi di gravi difetti nel post-raccolta deprezzassero i frutti vanificassero i sacrifici di un intero anno. E allora? “Da autodidatta cominciai a documentarmi, a studiare, ad approfondire. Il web è stata la mia biblioteca. Lo faccio ancora perché la tecnica di coltivazione si può ancora affinare per migliorare il prodotto finale”.
L’avventura dei frutti esotici è cominciata con 400 piante di mango. Oggi, degli 8 ettari dell’azienda, 5 sono occupati da due specie tropicali: avocado per il 20 per cento, mango per l’80. Di quest’ultima specie sono presenti circa 2.700 piante di diverse cultivar ovvero Glenn, Kensinton Pride, Maya, Osteen e Kent che assicurano di un calendario di produzione che va da metà agosto a metà novembre.
Una cosa Amata l’ha imparata presto: ovvero che il mango alle nostre latitudini necessita di attenzioni costanti e di accorgimenti speciali. A cominciare dall’impianto che non può prescindere da una sistemazione del terreno a solchi e ampie baule in corrispondenza della quali vengono messe a dimora le piante (e che è meglio coprire con pacciamatura). Il tutto per evitare fenomeni di ristagno che rappresentano una causa predisponente allo sviluppo di alcune patologie fungine. Allo stesso tempo non si può prescindere dalla protezione dalle intemperie, soprattutto dal vento. Da qui la presenza obbligatoria dei frangiventi. Ma anche l’uso delle reti di copertura appare irrinunciabile. “Serve ad evitare che l’eccessiva insolazione possa provocare la bruciatura dell’epidermide del frutto e delle cellule sottostanti deprezzandolo moltissimo”, spiega Amata. Per il nostro mangheto ho optato per una rete bianca con ombreggiatura al 30 per cento. “A questo – aggiunge l’imprenditore – ho accoppiato anche trattamenti a base di caolino o di polvere di silicio che coprono il frutto riducendo l’effetto negativo delle radiazioni solari”.

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Una coltivazione attenta, dunque, ma anche dispendiosa: “Per ottenere buoni risultati dal punto di vista quantitativo e qualitativo, il mangheto deve essere nutrito e corroborato adeguatamente con concimazioni bilanciate e microlementi, ma anche con prodotti naturali che aumentano la capacità di resistenza delle piante”, spiega Amata. Tutto impegno che viene comunque ripagato dal livello di qualità raggiunti dal prodotto a cui corrisponde un ottimo apprezzamento sul mercato. “A patto, però – avverte Amata – di saperla narrare la qualità dei nostri prodotti…”. Il che vuol dire adottare anche politiche di brand e scegliere mercati di consumatori altospendenti. Amata, in sostanza ha applicato ai suoi frutti tropicali i modelli di marketing tipici dell’abbigliamento di lusso di cui si è occupato per diversi decenni prima di dedicarsi all’agricoltura. E così come gli abiti e le borse griffate spopolano a Milano, capitale italiana della moda, anche il suo “PapaMango” (questo è il suo marchio) viene piazzato a Milano, Verona, Padova, e altre destinazioni comunque sempre non più a Sud di Roma. Gli viene pagato a 5 – 5,5 euro al chilogrammo e venduto sulle piazze ricche anche a 15 euro. Al mercato del fresco raggiunto tramite alcuni distributori, propone solo la prima scelta, dalla seconda in giù il prodotto viene destinato alla trasformazione grazie agli accordi raggiunti con 3-4 aziende che ritirano il prodotto scartato e che sono ben felici di lavorare il prodotto siciliano.
“Quello dei frutti tropicali è un acquisto ‘emozionale’ – dice Vincenzo Amata – e come tale va supportato dal racconto”. Perfettamente in linea con quanto ci aveva fatto notare Andrea Passanisi a proposito dell’avocado dell’Etna.

Angela Sciortino



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