«La politica che non rispetta un provvedimento giudiziario e mostra insofferenza al controllo di legalità ci rassicura sul piano dei fondamentali principi democratici?»

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Dunque: un pubblico ufficiale utilizza in modo indebito un atto riservato. Viola il segreto d’ufficio.

Sì apre un fascicolo, come tanti.

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Il pm chiede l’archiviazione perché ritiene che la condotta materiale sia stata realizzata (del resto, pacificamente riconosciuta) ma che non sia certa la sussistenza del dolo.

Un caso come tanti.

Il giudice rigetta la richiesta del pm e dispone di andare a processo: anche questa una situazione come tante. Non solo prevista dalla legge (il pm chiede, ma è sempre il giudice che decide) ma che dimostra altresì un’altra cosa fondamentale: anche se la carriera di giudici e pm è unica, non esiste nessun presunto “appiattimento” del giudice sul suo “collega” pm.

Il caso che stiamo raccontando ne è dunque l’esempio: il pm ha chiesto una cosa, il giudice l’ha rigettata.

Andiamo avanti.

Si fa dunque il processo disposto dal giudice e alla fine il pm è ancora convinto che non ci sia prova del dolo e chiede l’assoluzione: cosa del tutto fisiologica, e che dimostra che nel nostro attuale sistema il pm opera anche a favore dell’indagato e dell’imputato.

Non solo: dimostra anche in modo lampante che neppure il pm si appiattisce sul “collega” giudice.

Ebbene, che accade poi?

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Il giudice, nonostante la richiesta di assoluzione, condanna, perché è convinto che il dolo ci sia.

Anche questo del tutto fisiologico, e assolutamente frequente. E ulteriore dimostrazione (vedete finora quante prove?) dell’assoluta falsità dell’assunto secondo il quale poiché fanno la stessa carriera, pm e giudici sarebbero “appiattiti” l’uno sui desiderata dell’ altro. Come se i processi non fossero una cosa terribilmente seria, ma un continuo “compiacersi” a vicenda tra i due rappresentanti dell’autorità giudiziaria.

Ora, la vicenda appena raccontata sarebbe in fondo del tutto “ordinaria“, ed anzi espressione del prezioso valore democratico del nostro sistema attuale: pm e giudice, pur se colleghi, ragionano e operano secondo scienza e coscienza e adottano decisioni non uniformi tra loro. Perché il tutto è finalizzato all’ accertamento della verità, non all’ affermazione della propria tesi. E tutto all’ interno di un processo che serve proprio a questo.

Tutto sarebbe fisiologico e segno di un sistema che funziona; e l’imputato condannato dovrebbe dire, come tutti i cittadini, che rispetta la sentenza, attende le motivazioni, farà appello.

Ma non è così, nel caso che ci sta occupando.

Perché quell’imputato, essendo non un qualsiasi pubblico ufficiale ma un politico, pensa di non essere sottoposto al principio di uguaglianza.

Pensa di poter attaccare i giudici che hanno preso la decisione di condanna, anziché affermare con compostezza che in uno Stato di diritto le sentenze si rispettano ed eventualmente si appellano.

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Non si preoccupa di cosa potrebbe accadere domani se tanti altri imputati (per qualsiasi delitto: mafia, violenza sessuale, rapina, omicidio, truffa) facessero come lui e disconoscessero la legittimazione di una sentenza.

Pensa, soprattutto, di reagire alla sua condanna minacciando di “andare avanti con le riforme” e dimostrando altre due cose: la prima, di sentirsi diverso dagli altri cittadini (che di fronte a un processo a loro carico non possono minacciare di “cambiare le leggi“). La seconda, di voler fare la riforma esattamente al fine che i magistrati italiani stanno denunciando: evitare il controllo di legalità sul potere. Annichilire il principio di uguaglianza. Controllare il potere giudiziario, calpestando il principio di separazione tra i poteri dello Stato: che è il fondamento della democrazia.

E un’altra cosa accade: il capo del Governo, massima espressione del potere esecutivo, interviene con dichiarazione pubblica prendendo posizione contro la sentenza (un tempo si diceva “aspettiamo le motivazioni…“) e aggiungendo, come monito e quasi ad anticipare eventuali domande, che il politico condannato “resta al suo posto“.

Scelta del tutto legittima, ma nell’ insieme della dichiarazione impropriamente collegata alla critica della sentenza.

Insomma, ancora una volta la prova di quanto detto su, che peraltro ci pone di fronte a un serio interrogativo: la politica che non rispetta un provvedimento giudiziario e mostra insofferenza al controllo di legalità ci rassicura sul piano dei fondamentali principi democratici?

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