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La Costituzione viene talora citata come il sancta sanctorum della nostra Repubblica e certamente, al di là delle sacralizzazioni più o meno di circostanza o di comodo, è un riferimento sicuro e imprescindibile per la vita democratica.

Quanto alla sua effettiva attuazione, si possono distinguere tre gruppi di precetti: quelli attuati subito; quelli attuati con calma (undici anni per l’istituzione del Consiglio superiore della magistratura, 1959) o con molta calma (22 anni per l’istituzione delle Regioni, 1970); quelli del tutto trascurati. Spicca fra questi l’articolo 46, giaciuto da 77 anni nel limbo della (voluta) smemoratezza. Esso recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».


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Finalmente pare che si riesca a colmare questa quasi ottuagenaria censura grazie alla legge attualmente all’esame della Camera, “La partecipazione al lavoro. Per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori”. Si tratta di una proposta di iniziativa popolare (400mila firme) promossa dalla Cisl, che ha superato l’esame in Commissione con qualche modifica rispetto alla formulazione iniziale, voluta dalla maggioranza di governo anche come mediazione con posizioni confindustriali.



Non è qui la sede per addentrarci in questi particolari aspetti che sono anche molto tecnici e non ce la si può cavare in poche battute. Ci limitiamo a dire pur sommariamente tre cose: primo, che cosa dice la legge; secondo, come mai non si è mai fatto qualcosa del genere prima; terzo: qual è la posta culturale in gioco.

1) Cosa dice la legge. Il diritto costituzionalmente sancito di collaborazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda è declinato in quattro livelli di partecipazione: gestionale, economico-finanziaria, organizzativa e consultiva. Partecipazione gestionale significa essere rappresentati in seno agli organi societari dove si decidono le strategie di fondo. Il livello economico-finanziario riguarda la partecipazione al capitale azionario e alla divisione degli utili. Quello organizzativo riguarda l’organizzazione del lavoro, i piani di innovazione, la sicurezza, ecc. Infine, la partecipazione consultiva: i rappresentanti dei lavoratori possono essere informati e preventivamente consultati in merito alle scelte aziendali.



Per le persone impegnate in questi ruoli è prevista una specifica formazione. Inoltre, viene riconosciuta la possibilità di prevedere nell’organigramma aziendale, in attuazione di contratti collettivi aziendali, le figure dei referenti della formazione, dei piani di welfare, delle politiche retributive, della qualità dei luoghi di lavoro, della conciliazione e i responsabili della diversità e dell’inclusione delle persone con disabilità.

2) Perché non si è fatta prima. Nelle intenzioni dei costituenti, la partecipazione dei lavoratori alle imprese era elemento necessario per raggiungere una completa democrazia, valorizzando la persona che lavora, soggetto di una “elevazione economica e sociale”. In quest’ottica sono da riconoscere o da promuovere esperienze di organizzazione aziendale basate su una visione comunitaria dell’impresa, sulla reciproca necessità di imprenditori e lavoratori, di capitale e lavoro, sulla ricerca dei possibili interessi condivisi tra lavoratori e imprenditore.

L’iniziativa per l’articolo 46 venne non a caso da costituenti democristiani provenienti dall’esperienza del sindacalismo bianco, come Giovanni Gronchi, Giulio Pastore (fondatore della Cisl) e Ferdinando Storchi (presidente delle Acli).

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Ma, come detto, dopo l’articolo niente. Il motivo sta nel fatto che, dopo la Liberazione e fino a tempi molto recenti, è prevalsa la cultura politico-sindacale del Partito comunista. Per essa capitale e lavoro sono antagonisti, la chiave di volta della storia è la lotta di classe, l’obiettivo finale è la fuoriuscita dal capitalismo, la strategia sindacale fa perno sulla conflittualità e la contrattazione collettiva centralizzata.

Lo spiegava assai bene, per esempio, già una decina di anni fa, un saggio di Pietro Ichino sulla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, n. 1. In quel saggio l’autore sostiene anche che “la caduta del Muro segna la fine del Pci ma non un mutamento drastico nella cultura dominante” in materia sindacale e di relazioni industriali. Nella Cgil di Landini si vede che cultura del conflitto (anche per scopi politici) mastica a colazione, pranzo e cena.

C’è da dire che storicamente si è verificata una strana convergenza di fatto tra Cgil e Confindustria: anche le diffidenze padronali per le “interferenze” dei lavoratori hanno frenato o impedito la partecipazione dei lavoratori alla gestione, come previsto, lo ripetiamo, dalla Costituzione.

La novità culturale. La legge sulla partecipazione dovrebbe passare in tempi non lunghissimi. Probabilmente hanno ragione quelli che la ritengono non perfetta. Resta il fatto che è un passo avanti di grande importanza culturale per lavoratori e imprenditori. Come si legge nel testo presentato dalla Cisl nell’audizione in Commissione parlamentare, “è impensabile proporre soluzione sostenibili e inclusive e complesse sfide economiche e sociali imposte dalla transizione ecologica e digitale, se si agisce in via unilaterale zavorrati dall’antagonismo tipi del secolo scorso”.

Non sembra fuori luogo collocare questo passaggio nella logica di una cultura sussidiaria, nella quale – il più possibile e fin dove è possibile – si esercita una corresponsabilità proporzionata. Fatta la legge, sarà da implementare e monitorare l’attuazione e gli esiti. Non solo per trarne utilità concrete, ma anche come occasione di educazione alla sussidiarietà. Che è la via principale di quella “elevazione” che la Costituzione indica.

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