In questi giorni di affannosa discussione del Piano strutturale di bilancio si può comprendere la frustrazione dei parlamentari, stretti tra le tante esigenze di spesa e la morsa di vincoli di bilancio praticamente insormontabili.
Nell’impossibilità di “smontare” la riforma previdenziale del 2011 e persino di aumentare le pensioni minime di un importo dignitoso, il Parlamento ha, per esempio, rivolto la sua attenzione al TFR dei lavoratori. Si tratta di quella parte della retribuzione accantonata (nella misura del 7, 41% della paga lorda) nell’intero periodo alle dipendenze di un’impresa, per essere liquidata – come somma di tutti i contributi, capitalizzati al tasso legale dell’1, 5% più il 75% del tasso inflazione e al netto di eventuali anticipi – al momento in cui il lavoratore lascia l’impresa per pensionamento, licenziamento o dimissioni. Proprio perché indisponibile fino all’interruzione del rapporto di lavoro, il TFR è da sempre oggetto del desiderio di tanti: delle imprese che, fino al momento della liquidazione ne beneficiano come finanziamento a costi più bassi di quelli richiesti dalle banche; dell’INPS, sempre alla ricerca di entrate che integrino i contributi sociali, insufficienti a pagare le pensioni; dei fondi pensione, istituiti nel 1995 per fornire un pilastro previdenziale a capitalizzazione finanziaria in grado di compensare la minore generosità (peraltro messa a carico delle giovani generazioni) di quella pubblica ma tuttora, a quasi trent’anni dall’istituzione, relativamente poco sviluppati.
Oggi, circa il 37% della forza di lavoro aderisce a una forma pensionistica complementare, con una percentuale particolarmente bassa tra i giovani e le donne, anche a causa della precarietà del loro lavoro e dell’esiguità delle loro retribuzioni. La percentuale di coloro che, pur aderendo, contribuiscono effettivamente è, purtroppo, di appena un quarto.
Con questi dati, l’idea di incentivare le pensioni integrative anche ricorrendo al TFR è dunque nel complesso condivisibile giacché, di fronte all’inverno demografico del Paese, le promesse di buone pensioni pubbliche in corrispondenza con basse età di pensionamento saranno sempre meno credibili. Cosa fare allora? Posto che l’obbligo di destinazione del TFR alla previdenza complementare ha possibili profili di incostituzionalità data la rischiosità dei mercati finanziari (l’art. 47, parla di “tutela del risparmio in tutte le sue forme”), si pensa ora di ricorrere a una “spinta gentile” con il meccanismo del “silenzio-assenso”, già sperimentato nel 2007; un meccanismo per indurre lavoratori e lavoratrici a scegliere una strada che si ritiene sia nel loro interesse senza esplicitamente obbligarle a farlo; del tipo: “se non decidi tu, lo faccio io per te”.
In che modo? Al suo primo impiego, il lavoratore e la lavoratrice hanno sei mesi di tempo per scegliere se versare il loro Tfr alla previdenza complementare o se tenerlo in azienda; se entro questo tempo non manifestano alcuna volontà, il loro TFR viene automaticamente versato, e in modo irrevocabile, al fondo pensione occupazionale, dove il beneficio è maggiore rispetto ad altri fondi perché anche il datore di lavoro vi contribuisce. Versamenti e relativi rendimenti saranno poi ripagati sotto forma di pensione integrativa, alla quale il lavoratore potrà accedere – con almeno cinque anni consecutivi di iscrizione – una volti raggiunti i requisiti per l’accesso alla pensione pubblica.
Se il lavoratore esprime la volontà di mantenere il TFR e pertanto di rinunciare alla previdenza integrativa, il TFR viene comunque sottratto all’impresa, purché di dimensioni pari o superiori a 50 dipendenti, e versato all’INPS, che utilizza lo utilizza per finanziare le pensioni pubbliche. L’opzione non è data nel caso di imprese sotto i 50 dipendenti sia per il danno che ne deriverebbe loro, date le loro maggiori difficoltà e onerosità di finanziamento dal settore bancario; in ogni caso, è dubbio che i lavoratori se ne avvarrebbero per la maggiore vicinanza con il datore di lavoro. Il lavoratore può decidere per un fondo pensione aperto o per un Piano individuale senza utilizzare il TFR, ma ovviamente bisogna che abbia sufficiente capacità di risparmio. Qual è oggi la situazione?
Nel 2023, secondo stime riportate nell’ultima rilevazione della Covip, dei circa 31, 3 miliardi di TFR solo 7, 8 (circa il 25%), sono stati versati alla previdenza integrativa; 17, 3 miliardi sono rimasti accantonati presso le imprese mentre 6, 1 sono stati destinati al Fondo di tesoreria dell’Inps. Un numero di lavoratori superiore a quanto fosse prevedibile o auspicabile ha in effetti espresso la preferenza per il TFR: forse per il rendimento niente affatto disprezzabile (soprattutto in periodi di bassi tassi e inflazione piuttosto elevata) o per sfiducia nei confronti dei mercati finanziari o, ancora, perché a molti piace l’idea di poter disporre, almeno una volta nella vita, di una cospicua somma di denaro da destinare all’acquisto della casa per i figli o a ristrutturare quella ricevuta in eredità dai genitori. Sta di fatto che, pure in crescita, la previdenza integrativa non appare ancora in grado di fornire quel complemento alla pensione pubblica che permetterebbe ai lavoratori di raggiungere una sufficiente tranquillità finanziaria in età anziana.
Da qui l’idea, contenuta in un emendamento della maggioranza alla legge di bilancio, di dare una nuova chance a chi, avendone la possibilità, non ha finora aderito; e il nuovo grido d’allarme dell’INPS: se ci togliete quei miliardi dove va a finire il nostro bilancio? In realtà, non sembra esservi un gran bisogno di un nuovo semestre di silenzio-assenso. Quello di cui vi è gran bisogno è una seria, credibile campagna di informazione o, se si preferisce, di educazione previdenziale che aumenti la consapevolezza dei lavoratori sulla necessità di risparmio per l’età anziana.
Senza inganni, però: la si può girare come si vuole ma senza aumenti retributivi la coperta, anche includendovi il TFR, sarà sempre troppo corta.
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